Scanzi a VareseScanzi a Varese

Se Gaber fosse qui, ora, cosa direbbe? Soffrirebbe e scriverebbe e balzerebbe sul palco e canterebbe e ci incanterebbe, con arditi voli pindarici, affabulazioni rocambolesche, cariche di tormento e passione, ironia e disillusione.
Nell'incertezza dell'avvenire, ma nella certezza di volersi avvicinare, quel tanto che basta per scorgerne il volto. Magari subito, o forse tra un po'.
Perché quel gran figlio di puttana che risponde al nome di Tempo non dà tregua. E' troppo rapido, infido, irto di tranelli.
Tu gli chiedi un attimo per rifiatare, ordinare le idee o semplicemente alzare la guardia. E quello suona la sveglia. O peggio, la campana. E ti uccide. Lasciandoti ficcata in gola l'ultima nota. Che non è mica musica. No. Troppo facile. E' un pezzo di realtà. Che non conosceremo, non ascolteremo, non decifreremo. Perché resterà per sempre laggiù, chiusa nella bara insieme al menestrello che l'ha generata.

Quanta rabbiosa dolcezza c'era in Giorgio Gaber. E quanta dolce rabbia c'è nel monologo di Andrea Scanzi, che vent'anni fa scattò una foto al signor G e da allora si sente osservato, scrutato. Proprio da lui. Da quel celeberrimo volto, armato di cravatta, microfono e naso pronunciato.
Il diciassettenne Scanzi lo immortalò. Il trentottenne Scanzi lo seziona. Come un novello cubista. Lavora di sottrazione, lo spoglia, lo capovolge, lo sovrappone all'icona, al fanatismo postumo, all'ipocrita revisionismo di un Paese abituato a inghiottire di tutto senza assaporare nulla.
E' un Gaber quadridimensionale quello che il giornalista del Fatto sta portando in giro per l'Italia. E' sul palco, grazie a lui, che ne ricostruisce il cammino. E' sullo schermo, grazie a immagini e filmati. Ma è anche in platea, seduto accanto a noi. E ci guarda, ci interpella. Ci chiede se e quando saremo pronti anche noi alla stessa guerra. Una guerra umana, intima, implosiva, di cui è stato capace lui. Una guerra che non è possibile vincere, ma che prima o poi bisogna combattere. Come ha fatto lui. Il Signor G. Che sul campo di battaglia tirava fendenti con l'arma del talento: doloroso e immenso, nomade e un po' bastardo.
Vissuto senza redini, senza padroni e senza padrini. Gabbiano ipotetico di un'Italia teorica.