Dante IsellaDante Isella

L'umanità sincera – A chi scrive toccò l'opportunità di intervistare Dante Isella negli anni Novanta. Colsi così l'occasione di accostarmi all'umanità ruvida ma sincera di quel personaggio che immaginavo conducesse la sua vita per lo più asserragliato tra i libri nella turris eburnea della Cassiciacum di agostiniana memoria.
Il professore si era impegnato a tenere una serie di lezioni sulla Linea lombarda della Scapigliatura, uno dei cavalli di battaglia più noti della sua vita di studioso delle lettere e di filologo. Lo faceva a titolo benefico a favore della Lega per la lotta ai tumori e la stessa associazione mi sollecitò a intervistarlo per dare maggior risalto a quegli incontri che si sarebbero tenuti nel salone di Palazzo Estense. Scrivevo allora su La Prealpina, quotidiano per cui ho lavorato nel corso di una ventennale collaborazione iniziata nel 1976.

Non più di un quarto d'ora – L'idea dell'intervista non era partita dunque da a me. Non che mi dispiacesse di poter incontrare Dante Isella, ma, conoscendo la caratura culturale del personaggio, nonché la fama del carattere, da tutti temuto, ben me ne sarei guardata dal prendere l'iniziativa di avvicinarlo. Immaginavo la sua diffidenza, per la verità non del tutto infondata, nei confronti di giornalisti e scocciatori in generale. La sola idea di alzare il telefono per contattarlo mi metteva a disagio. Mi adoperai comunque per fare quanto richiestomi, vincendo la mia codardia, forte del fatto che la strada era spianata dallo scopo della nobile causa in cui entrambi, da un versante e dall'altro, ci trovavamo coinvolti a fin di bene. Nessuna difficoltà apparente iniziale. Il professore, sorprendendomi e quasi smentendo quell'etichetta di uomo riottoso al contatto umano, rispose prontamente all'altro capo del telefono, dopo pochi squilli. Mi sembrò strano non usasse il filtro dei collaboratori domestici. Per quanto diffidente verso gli estranei, notai con un certo stupore, era abituato a trattare di persona con chi lo interpellava telefonicamente, osando rompere il silenzio intatto della sua casa di studioso.
Gli chiesi dunque di incontrarlo per l'intervista. La risposta, scoraggiante, mi fulminò: " Le posso concedere non più di un quarto d' ora". Era molto preso, spiegò, da un lavoro di prossima pubblicazione.
Fosse stato chiunque altro, avrei replicato no grazie, non si può fare. Chi s'impegna nella stesura di un'intervista sa di dover dedicare almeno un'oretta all' incontro, soprattutto quando l'intervistato ha molto da dire su di sé.

Alfredo Morbelli, Via CavourAlfredo Morbelli, Via Cavour

Il mondo segreto – Ma accettai, naturalmente, anche per non venire meno alla parola data, pur arrovellandomi su come avrei potuto scrivere qualcosa di buono avendo così poco tempo a disposizione. Più che delle lezioni, di cui si sarebbe saputo poi tutto, a me premeva sapere dell'uomo e del personaggio che avrebbe incontrato i varesini nelle sale del duca d'Este e che più volte avevo sentito intrattenere il pubblico, splendidamente, in occasione di alcuni eventi culturali.
Venne il giorno desiderato e temuto. Mi accolse lui stesso, dopo avermi impartite dal citofono istruzioni su dove dovessi dirigermi, svelandomi all'improvviso quel suo mondo segreto immerso nel verde, nascosto alla vista dei curiosi dalle spesse mura dell'antica dimora. Poi, mentre la bocca scura e immensa del portone si richiudeva docile dietro di noi, mi pilotò velocemente verso la casa.
Lo studio nel quale mi introdusse era situato al piano terreno, illuminato da un' ampia vetrata che concedeva all'ospite di alleviare la severità di tanto incontro permettendogli di spingere lo sguardo all'esterno, nell'abbaglio della luce pomeridiana, tra il cielo e il verde del giardino. Mi fece sedere accanto al computer acceso che mandava girandole di luce. Sembrava l'avesse lasciato in paziente attesa, pronto a farlo rientrare nelle sue funzioni di macchina per scrivere non appena me ne fossi andata.

Con preghiera di non sciupare – Avevo preparato una serie di domande che, facendomi coraggio, riuscii a sottoporgli una per una. In realtà l'intervista sforò fino a quaranta minuti, senza che il professore desse segni di impazienza. Mi impegnai con zelo nella trascrizione delle risposte per non scrivere sciocchezze nel pezzo, promettendo alla fine di farglielo rileggere prima che andasse in stampa. E così avvenne.
Quando me lo restituì, dopo aver aggiustate a matita un paio di cose, mi consegnò contemporaneamente la busta con alcune fotografie che lui stesso aveva preparato per il giornale. E mi lasciò, assieme alle foto, una busta più piccola. La aprii con grande curiosità. M'era capitato, più di una volta, che gli intervistati mi scrivessero qualche parola di complimento sull'intervista fatta. Il biglietto di Isella si riferiva invece alle foto." Con preghiera di non sciupare e di restituire" aveva scritto di suo pugno.
Trangugiai e, nei giorni successivi, mi affrettai a riportargli al più presto la busta con le istantanee prestate. Mi ero accordata di lasciargliele nella buca delle lettere, senza disturbare. Era una giornata buia e di pioggia. La verde Cassiciacum annegava nella nebbia. Imbucai nella cassetta che sporgeva dall'ingresso, sperando che l'acqua non rovinasse le fotografie, convinta comunque di avere fatto del mio meglio per evitare guai.
Pochi giorni dopo uscì il giornale con l'articolo a tutta pagina, richiamato anche nella prima.
Una delle fotografie ritraeva il professore a Parigi, dove-pensavo- doveva essere stato felice, con una sciarpa svolazzante al collo e i capelli scomposti al vento che lo facevano sembrare più giovane e spensierato. Mi pareva che l'intervista fosse venuta bene. La riposi tra i ritagli di giornale più cari, assieme a quel perentorio biglietto.

Alfredo Morbelli, Via Cavour, part.Alfredo Morbelli, Via Cavour, part.

La commozione – Negli anni successivi mi capitò di incontrare ancora Isella in pubbliche occasioni. Ma non osavo salutarlo, convinta che non si ricordasse certo di me. Mi sedevo al fondo della sala, per ascoltarlo senza farmi vedere, come avevo fatto altre volte prima di quel nostro incontro. I suoi perfetti interventi – ne ricordo su Morselli, Sereni e Piovene – continuavano a sembrarmi, come sempre, splendidi ed emozionanti.
Una cosa non avevo detto, e mai avrei detto – anche avendo più tempo per l'intervista – al professore. Anni prima, con Francesco Ogliari, avevo scritto un libro su Alfredo Morbelli. Avevamo ricostruito la vita del fotografo, figlio del grande pittore divisionista Angelo, e la Varese degli anni del Ventennio, con testi e foto del prezioso archivio del medesimo. Qualcuno mi aveva raccontato che tra le tante istantanee raccolte nel volume ce n'era una dove Isella si era riconosciuto in un bambino. Non ebbi modo mai di sapere se così fosse davvero, anche se il testimone era del tutto attendibile. Ma il ragazzino ossuto dall'aria inglese e dalle gambe lunghe, ritratto con la cartella di scolaro in mano, i pantaloni corti e il colletto bianco aperto sulla giacca quadrettata, cammina diritto e sicuro di sé sul marciapiede della via Cavour, non lontano dalla casa natale che Isella aveva fatto restaurare tempo fa.
Quel qualcuno che mi aveva riferito il fatto aveva anche aggiunto che il professore, vedendo la fotografia, si era commosso, manifestando parole di apprezzamento per il libro.