Eccolo. La mia compagna di viaggi e io lo scorgiamo in fondo alla stradicciola che si arrampica fin sulla cima della collina di Koya. La sua sagoma quasi non si distingue dalle strisce di nebbia sottile che l’avvolgono tutto. Ancora pochi pesanti passi siamo ora davanti al Daimon, la porta dell’area sacra.

In realtà un Daimon, nella cultura occidentale è un essere che si pone a metà strada fra ciò che è celeste e ciò che è umano, con la funzione di intermediario tra queste due dimensioni. Socrate riferisce di un Daimon come guida divina che lo assiste in ogni sua decisione, una sorta di coscienza morale che si rivela sotto forma di ispirazione, una voce che rappresenta l’autentica natura dell’anima umana, la sua ritrovata coscienza di sé.

E’ curioso che l’edificio in legno che funge da ingresso di questa zona venerata da secoli si chiami proprio “Daimon”: una parola che suona invitante, sembra volerci guidare verso nuove scoperte.

Con un altro sforzo, in mezz’ora raggiungiamo il nostro “Tori”, il portale d’accesso del monastero scintoista che ci ospiterà per qualche notte.

Ci sono un’infinità di santuari qui intorno, ognuno con un proprio “Tori” ma gli ideogrammi incisi sulla trave nodoso di questo antico architrave in cedro corrispondono alle indicazioni del foglietto che abbiamo in mano: dopo ben tre giorni di viaggio siamo arrivati alla nostra meta.

Appoggiamo soddisfatti gli zaini sotto il porticato e accompagniamo con entrambe le mani la fragile anta scorrevole posta ad entrata dell’edificio.

Ci viene incontro il monaco, in gran fretta, strisciando le ciabatte a piccoli passi simmetrici. Rallenta i suoi movimenti solo per regalarci un lungo inchino pronunciato. Ha i capelli tutti rasati, indossa la tunica e la serenità che ci aspettavamo. Non dice nulla ma il suo spazioso sorriso ci accoglie più di qualsiasi frase di circostanza sillabata in inglese.

Intuendo il nostro imbarazzo nel toglierci le scarpe all’ingresso, ci porge subito delle ciabatte che, come sempre accade qui in Giappone, arrivano sì e no a tre-quarti della pianta del nostro piede, rendendo la camminata goffa e insicura. Poi ci consegna lo “yukata”, una vestaglia da indossare per la cena.

Dal lucernario filtra la luce tenue e ovattata di un giorno di pioggerella fitta ma l’infilata di lanterne votive che riempie il corridoio del monastero rischiara il nostro procedere.

Ad ogni passo le assi cigolano ritmicamente sotto i nostri piedi senza interrompere la pace di questi ambienti fragranti di sacralità. E’ come camminare in quei rifugi di montagna dove le grosse assi scure del pavimento sono state inchiodate decenni fa per restarci a lungo e il profumo del lucido per il legno si sparge in tutta la vallata.

La temperatura all’interno delle sale riflette l’aria frizzante dei mille metri di quota. Temiamo un po’ quando il monaco ci mostra la stanza nella quale alloggeremo per la notte, un ambiente vuoto tutto sagomato di tatami al suolo e contornato soltanto da esili pareti di carta.

Dormire per terra al gelo non è certo una prospettiva allettante ma lui ci rassicura con la stessa premura adoperata poco prima, premendo senza indugiare il pulsante del riscaldamento ad aria. Siamo in Giappone: non dobbiamo dimenticarlo. C’è tutto quello che serve e soprattutto ogni cosa funziona a dovere.

La nostra società attuale è troppo basata sulla generazione continua di desideri e sullo sforzo orientato alla soddisfazione dei medesimi. Qui invece qualcuno ha già pensato a ogni cosa: non serve ambire a volere nulla di più, quindi ci si può occupare delle faccende serie, come ad esempio la cura della propria anima.

Al piano terra del monastero c’è persino un “Onsen”, una vasca comune per fare il bagno che raccoglie acque termali, provenienti dalle viscere della montagna a temperatura elevatissima. Essendo l’unica modalità prevista per lavarsi noi viaggiatori siamo costretti a chiedere istruzioni e ci “tuffiamo” nell’impresa, con qualche difficoltà legate al galateo molto particolare.

Innanzitutto scopriamo che occorre entrare completamente nudi, per fortuna almeno maschi e femmine sono in due ambienti distinti. Poi è necessario lavarsi in maniera accurata prima di immergersi nella vasca. Bisogna sedersi su di uno sgabellino microscopico, strofinarsi ogni centimetro quadrato di pelle e risciacquarsi con un secchio. Mi pare uno strano modo di fare la doccia da seduti. Solo dopo questo rito, che può durare anche mezz’ora, è possibile sprofondare nell’Onsen. Durante l’abluzione si può, anzi si deve chiacchierare con gli altri utenti ma sottovoce. Non bisogna però nuotare.

L’immersione nelle acque termali è un’esperienza catartica e purificante, anche se per noi all’inizio potrebbe risultare un po’ sgradevole stare completamente nudi in mezzo a degli sconosciuti.

Il vapore s’addentra nei pori della pelle offrendo una sensazione di leggerezza e rilassamento che fa sempre piacere. Mi abbandono per qualche istante nell’acqua bollente con l’asciugamano appoggiato al bordo e mi pare persino che la superficie del mio corpo non percepisca più il calore.

Ivo Stelluti, il Viaggiator Curioso,
Koyasan, Giappone,
28 aprile 2019.