Nel corso della quindicesima edizione del festival di Cortisonici, lo sguardo della cinematografia si è rivolto anche al piccolo schermo e a una delle sue eccellenze più longeve: Un posto al sole.

Al tavolo dell’incontro Mafie, racket e usura in prima serata, venerdì in Sala Montanari a Varese, hanno preso posto volto e scrittura della “soap partenopea”: Michelangelo Tommaso, attore e interprete del personaggio di Filippo Sartori, e Raffaele Napoli, storyliner e sceneggiatore. Moderatore del dialogo a tre voci è stato il professor Massimo Scaglioni, docente di Storia dei Media ed Economia e marketing dei media all’università Cattolica di Milano, uno dei maggiori esperti di televisione e prodotti audiovisivi a livello internazionale.

Un posto al sole rappresenta un prodotto culturale italiano di grande rilevanza, protagonista della storia della nostra televisione per diverse ragioni. Muovendo dalla recente scomparsa di Steven Bochco, autore e produttore televisivo americano tra i più innovativi, Scaglioni traccia una breve descrizione delle origini delle serie tv e del loro legame con il mondo delle soap operas: ”Agli inizi degli anni 80, Bochco aveva creato Hill Street Blues, la prima serie televisiva con tutte quelle caratteristiche, di racconto corale, che avrebbero ispirato le serie successive sino a oggi. Aveva dichiarato di essersi ispirato a una famosa soap opera dell’epoca, Dallas. Questo elemento ci porta ai contenuti. Basato sul format australiano Neighbours, rispetto alla centralità che i racconti melodrammatici avevano nella soap all’americana, Un posto al sole  sposta l’attenzione soprattutto su due nuovi elementi: la commedia e il realismo”. Da oltre vent’anni, il programma di Rai3 vince perché racconta storie che entrano in sintonia con il pubblico, affrontando temi sociali come adozione, abbandono scolastico, camorra, bullismo o disabilità. Si nutre di realtà e la restituisce in forma di racconto, per questo non è una soap opera ma un real drama. “Questo – secondo Scaglioni – è un lavoro pregevole fatto sia dal programma che dalla televisione di servizio pubblico”.

Su questo modo pionieristico di raccontare s’inserisce la figura dello storyliner che, come spiega Raffaele Napoli: “nasce da un modello produttivo basato sul racconto quotidiano costante di quello che accade”. La fiction di prima serata segue uno stile produttivo cinematografico in cui lo sceneggiatore scrive l’episodio confrontandosi costantemente con il regista, finché l’episodio va in onda. Dinamica, questa, che gli autori di Un Posto al sole non possono concedersi, poiché da subito immersi in un lavoro di squadra che coinvolge otto persone: “Avendo venti personaggi da gestire e l’impegno ad andare in onda tutti i giorni, ogni storyliner ha la necessità di sapere cosa  stanno scrivendo i colleghi in ciascun episodio a loro affidato. Questo permette di mantenere la continuità, di costruire un racconto in cui ogni pezzo è legato agli altri in modo coerente. A partire da un blocco di cinque episodi a settimana, decidiamo quali vicende dovranno attraversare i nostri personaggi nel corso della settimana”. In questo quadro,  è fondamentale effettuare ricerche e consultare esperti, come avvocati o medici, per garantire al racconto veridicità e aderenza alla realtà.

Un posto al sole è una grande macchina produttiva. “Le differenze rispetto a cinema e teatro sono molte” osserva Michelangelo Tommaso, attore noto al pubblico anche per il ruolo di Paolo nel film di Ferzan Ozpetek Saturno Contro e per i personaggi che ha portato in scena nei principali teatri italiani. “Partendo dal presupposto che il mestiere è sempre lo stesso e che l’attore è un privilegiato, i ritmi di realizzazione scenica di Un posto al sole sono serrati. È richiesto un grande impegno fisico e mentale, perché si tratta di essere pronti ad attingere alla propria preparazione artistica in ogni momento per girare, una dietro l’altra, scene spesso cronologicamente distanti e psicologicamente diverse tra loro. Si tratta di avere un forte controllo della scena e riuscire a tenere sempre la continuità senza mai tradire il pubblico”. Spiegando la difficoltà di restare fedeli ai fatti reali, ricorda divertito quando, per esigenze sceniche, si è recato a New York per far partecipare il suo personaggio alla maratona: “Quell’anno però, dopo aver girato tutta la scena, un uragano ha causato l’annullamento della maratona, che alla fine si è corsa solo a Un posto al sole”. Fuori dal set, Michelangelo Tommaso è una persona estranea a ogni divismo. Generoso con il pubblico, ama scherzare e ride divertito quando qualcuno lo chiama istintivamente “Filippo”. Ma esiste il rischio, per un attore, di confondere realtà e finzione? “Non nel mio caso. Mia moglie, Samanta Piccinetti, è una delle interpreti di Un posto al sole, ma i nostri personaggi non interagiscono molto tra loro, per cui non c’è stato un coinvolgimento sul set che ci ha portati a riprodurre, nella vita, quella finzione scenica. Ci siamo incrociati a bordo set – prosegue sorridendo. Poi osserva: ”Si tratta di capire che mestiere si fa e di saper distinguere realtà e finzione. Questa, per un attore,  è una responsabilità molto forte”.

Michela Sechi