Un oggetto capace di indirizzare, con la sua sola presenza, l'orizzonte visivo, senza messaggi né simboli; una mediazione radicale; una piccola – talvolta minuscola – tabula picta che svela il metodo e i propri elementi costitutivi: colore, forma, contorno.
Fabrizio Parachini si racconta ad Artevarese. I suoi lavori non possono essere letti nel senso antipittorico. Tutt'altro. I lavori intessono un dialogo serrato con la luce, lo spettatore, lo spazio circostante, rigenerato, misurato e abitato in virtù della pittura stessa.

L'arte dice l'essenziale per lo spettatore "vedente" e non passivo. Trittici, Dittici e Unici assumono, sulle pareti, il ruolo di realtà installative e di punti focali entro cui affondare lo sguardo senza perdersi. Le Pagine possono fluttuare, i Dittici brillare di un "oro laico e moderno", sciami di linee percorrono le superfici.
Così, la pittura finisce per creare un centro d'attenzione, mettendo in gioco, nell'atto stesso del dipingere, le ragioni stesse dell'operare, la riflessione sulla musica, sul tempo e sul rapporto segno-parola.

I gesti tipici della pittura assumono, in tal modo, valenze rituali, sempre a partire dagli strumenti essenziali: tela, telaio, tavoletta, colore.
La via intrapresa è quella della chiarezza rispetto a quella dell'oscurità, un progetto di riflessione sull'essenzialità, la concentrazione, il tempo, lo spazio e certe cariche simboliche. In fondo, alcuni dei possibili approdi potrebbero essere la consapevolezza che la luce non si posa sul mondo ma lo rivela, fondandolo e la diversa qualità dello sguardo di chi osserva.