Copia di giovanna d arco.jpgGiovanna d’Arco è spirito. Ma anche cenere e metallo. La cenere in cui le fiamme l’hanno ridotta, il metallo della spada, dell’elmo, dello scudo. Giovanna D’arco è un simbolo, un fantasma che si aggira tra le spoglie di intere generazioni che il passato ha sepolto e che il presente ha frainteso. Ma è anche carne e sangue e lacrime, sudore e speranza. Ed è sogno. Lo stesso che Maria Luisa Spaziani ha estratto dal racconto classico, rielaborandolo e piegando la Storia a un finale diverso, inedito, in cui la pulzella di Orleans smette di essere agnello sacrificale e sceglie di trasformarvisi. Volontariamente. Finalmente libera, fisicamente salva, eppure eternamente condannata. Destinata a un rogo da cui è impossibile sottrarsi, proprio perché sintesi e capolinea di una cristianità che deve bruciare con il corpo del singolo per poter poi risorgere nell’anima del tutto.

 

E così, insieme (e a dispetto) della “rivoluzione storica e culturale” innescata da Spaziani, Andrea Chiodi trae una regia sobria, essenziale, dove l’icona si intreccia con la Leggenda, fino a trascendere il vissuto e renderlo immortale. Non a caso, Giovanna ha viso, corpo e voce di quella donna adulta che non ha mai potuto diventare. E che pure rivive sulla propria pelle l’onta della sconfitta, l’impeto della rivalsa, il clamore della vittoria, e poi lo strazio del dubbio, di fronte a quel fuoco che ne brucerà le carni consegnandone il nome al Mito e, appunto, alla trasfigurazione.

Sulla terrazza di un Sacro Monte che si fa scenografia naturale della magnificenza spoglia di questa ragazza minuta e coriacea, e di quella donna spaventata da ciò che i contemporanei hanno preteso e spremuto dalla sua giovinezza immolata, è l’anima stessa di Giovanna ad aggirarsi eroica e spaesata tra figure mistiche e angeli silenziosi, osservata da custodi discreti ma non servili, che paiono interessati a sorvegliarne le movenze, scrutarne i pensieri, vigilando sulla tenuta di un simbolo che non può più permettersi di vivere una propria identità, essendo diventata ostaggio prediletto di Dio e protagonista involontaria di un Suo disegno che forse non si è ancora compiuto.

 

Interpretato da Elisabetta Pozzi, la produzione della Fondazione Paolo Sesto trova nel testo la propria forza d’urto, che ha l’impatto provocatorio della svolta ma anche l’atavica consapevolezza dell’eterno ritorno verso un destino che è umano e collettivo proprio perché apparentemente individuale. Nella regia di Chiodi c’è tutta l’affascinante duplicità di una figura senza tempo, che all’umana debolezza risponde con l’armatura della fede. Una corazza che protegge gli organi vitali, ma lascia scoperta la fragilità essenziale della fanciullezza perduta.

E in questo senso, forse, l’interpretazione della Pozzi pecca di eccessiva irruenza, perché filtra e riduce l’impatto emotivo di dubbi e contraddizioni che sono fisici, corporei, a fronte di una narrazione che giustamente si afferma su coordinate eteree e su suggestioni sapientemente sussurrate. Ma è un debutto, una prima volta. Ci sarà tempo per lasciare che anche i silenzi trovino la propria voce.

 

 

 

VIDEO

 

 

 

Lo spettacolo di Giovanna D’Arco chiude l’edizione 2013 della rassegna "Tra Sacro e Sacro Monte", curata da Andrea Chiodi. Elisabetta Pozzi ha dato corpo e voce all’eroina nazionale francese, venerata come santa dalla Chiesa cattolica. VIDEO