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Mendrisio – Aprire gli occhi con una mostra si può. Quando cultura e arte si incrociano con scienza e tecnica si può dare un’immagine completa del mondo. In questo caso, il mondo è quello dell’arte con un mezzo – la fotografia – che, più di ogni altro, ha cambiato per sempre la cultura e la percezione dell’immagine alla base della società in cui viviamo. La mostra appena inaugurata nella Pinacoteca cantonale Giovanni Züst di Rancate a Mendrisio nel Canton Ticino si intitola “Arte e arti. Pittura, incisione e fotografia nell’Ottocento” e rimarrà visibile fino al 2 febbraio 2020.
La dettagliata e completa esposizione, curata da Matteo Bianchi sotto la direzione della Pinacoteca – affidata a Mariangela Agliati Ruggia – e con la collaborazione di Elisabetta Chiodini, indaga i rapporti e le influenze tra fotografia, incisione, disegno e pittura che, dal 1839 in poi, hanno cambiato per sempre, non solo l’arte ma, il mondo intero.

«La Pinacoteca Züst è uno dei pochi musei che consente di realizzare dei progetti e sogni nel cassetto – commenta il curatore Matteo Bianchi – la mostra è un vero e proprio studio con novità, inediti, quadri mai visti in pubblico e lastre originali, fotografie originali o riproduzioni ritrovate negli archivi». Un’esposizione che per l’importanza del tema di indagine e la cura con cui è stata realizzata è degna dei più importanti luoghi espositivi. La Pinacoteca Züst non si smentisce in fatto di qualità e competitività anche rispetto a Musei ben più famosi.

«La mostra si concentra su tre filoni» spiega la direttrice della Pinacoteca Mariangela Agliati Ruggia.

Il viaggio dalla scuola di Arras a Barbizon tra effervescenza e multidisciplinarietà
«Il filone – spiega Mariangela Agliati Ruggia – mostra i pittori attivi in Francia tra Barbizon, Arras e Fointambleau dove nacque la fotografia: la generazione precedente agli artisti lombardi e ticinesi che ispirati dalla clairière o radura di luce, tra le fronde boschive della mitica Fointambleau o foresta dei poeti, danno vita ad una pittura nuova e creativa. In esposizione le opere di Daubigny, Desavary, Dutilleux e Théodore Rousseau, Fontanesi e Millet.

Intrecci d’arte, pittura e fotografia nel lavoro dei pittori del secondo ottocento
«Il filone – spiega la ricercatrice Elisabetta Chiodinimostra, tra gli altri, artisti ticinesi, lombardi che hanno fatto un uso importante della fotografia: da studio per la composizione dell’opera a veicolo di diffusione ed opera in sé; in mostra opere di Carcano, Fontanesi, Faruffini, Tominetti, Michetti, Monteverde, Umberto dell’Orto, Bianchi, Pellizza da Volpedo, Segantini e ancora Franzoni, Rossi, Ranzoni, Mariani e i Vela».

I Clichè-Verre
Un ultimo filone mostra i meravigliosi e rarissimi Clichè-verre: una ventina di disegni oleografici su vetro, dieci solo di Jean-Baptiste-Camille Corot; un ibrido tra disegno, incisione e riproduzione fotografica con una qualità artistica straordinaria.

Contaminazione linguistica sul filo dell’incisione
«Nel 1839, data della prima riproduzione fedele della realtà, il mondo artistico ha reagito con entusiasmo e paura – spiega Matteo Bianchiprima gli artisti erano legati al concetto di imitazione della natura: l’idea era di riprodurre la realtà, copiare fantasiosamente attraverso l’uso di stampe a colori, panorami, cartografia mescolata; per molti questa data significò la fine della carriera ma per i più sensibili e ricettivi significò la ricreazione della natura e del paesaggio sulla base dell’invenzione. Un’idea in realtà già presente da secoli nella mente umana ma mai materializzata prima in un mezzo meccanico capace di moltiplicare e far proliferare l’immagine. La storia della fotografia va letta, infatti, nel percorso dell’evoluzione delle tecniche di stampa: xilografia (legno), acquaforte e puntasecca (rame e zinco) fino alla pietra che sono già matrici di immagini riprodotte; ma se la fotografia, faticosamente introdotta nel circuito delle belle arti, ha inizialmente messo in difficoltà la pittura, l’ha poi imitata. Oggi non è solo un mezzo riproduttivo ma creativo ed artistico capace di incrociare linguaggi differenti».

Lo strumento specchio
Una parte dell’esposizione documenta tecniche e strumenti a supporto della riproduzione delle immagini: macchine fotografiche da esterno e da interno, grandi e piccole e lastre d’epoca, stereoscopio, ma anche pietra litografica, tavola silografica e rame.

Molte le attività collaterali tra cui:
il progetto didattico “FotografArti”;
il laboratorio Cliché-Verre;
il laboratorio “Il segreto dei panorami ottocenteschi”.

Informazioni
Pinacoteca cantonale Giovanni Züst
CH-6862 Rancate (Mendrisio)
20 ottobre 2019 – 2 febbraio 2020
Catalogo della mostra disponibile
Tel. +41 (0)91 816 47 91
www.ti.ch/zuest

Daniela Gulino

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La Gioconda, nuove scoperte tra gli enigmi https://www.artevarese.com/la-gioconda-nuove-scoperte-tra-gli-enigmi/ https://www.artevarese.com/la-gioconda-nuove-scoperte-tra-gli-enigmi/#respond Thu, 26 Sep 2019 12:23:31 +0000 https://www.artevarese.com/?p=52778 A 500 anni dalla morte di Leonardo Da Vinci il mistero della Gioconda si infittisce. Gli arcani misteri legati al dipinto più famoso al mondo, la Gioconda, aumentano proprio nell’anno delle celebrazioni del 500° anno dalla morte del genio. Sono passati dieci giorni da quando i giornali hanno annunciato il ritrovamento della terza Gioconda, o meglio […]

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“La Gioconda”, Museo del Louvre

A 500 anni dalla morte di Leonardo Da Vinci il mistero della Gioconda si infittisce. Gli arcani misteri legati al dipinto più famoso al mondo, la Gioconda, aumentano proprio nell’anno delle celebrazioni del 500° anno dalla morte del genio. Sono passati dieci giorni da quando i giornali hanno annunciato il ritrovamento della terza Gioconda, o meglio di una versionecopia autentica sembrerebbe – della Gioconda, e solo sei anni dal ritrovamento del ritratto autentico ed originale di Monna Lisaprecendente alla Gioconda del Louvre. La scoperta è stata fatta dal senatore Stefano Candiani che, dopo averla trovata italianamente appesa alla parete dell’ufficio del Questore – oggi Ministro – Federico D’Incà, sopra a un calorifero, l’ha fatta analizzare e restaurare. Sembra che prima, infatti, fosse ritenuta una copia di scarso valore anche se proprietà della collezione Torlonia – Galleria Nazionale Barberini – e attribuita a Bernardino Luini. Claudio Metzger – esperto d’arte antica di fama internazionale – svela qualche segreto in quest’intervista:

La “Gioconda” scoperta dal sottosegretario Candiani, della collezione Torlonia della Galleria Nazionale Barberini è una copia?
«A proposito della bella Gioconda scoperta dal sottosegretario Candiani, innocentemente appesa al muro sopra ad un calorifero, si è sempre saputo che Don Giovanni Torlonia, nel 1892, l’aveva regalata al Regno d’Italia come attribuita a Bernardino Luini.
Credo sia accettato da tutti gli studiosi che quando Leonardo arrivò a Milano nel 1508 avesse con sé il dipinto, iniziato a Firenze anni prima, noto come ritratto di Monna Lisa.
Nel suo studio si unirono a Bernardino de Conti, il Salai, Luini, Cesare da Sesto, Giampietrino e Francesco Melzi. Forse appeso al muro, ma certo non vicino al camino, vi era il famoso dipinto sulla sottile tavola di pioppo. Come non ispirarvisi, come non essere tentati od addirittura invitati a copiarla? Quello notato dal sottosegretario Candiani, che l’ha presentata allo studioso Antonio Forcellino, è pertanto una copia dipinta in presenza dell’originale e non credo che allora si fossero posti problemi di Copyright. Comunque di accordi alla riproduzione, royalties o dispute non sappiamo nulla come, non sappiamo, se Leonardo stesso vi abbia messo mano, anzi pennello, o no».

In effetti però il grande equivoco sta alla base: parliamo della Gioconda o del ritratto di Monna Lisa del Giocondo?
«Pur non essendo uno studioso di Leonardo, mi sembra certo che la Gioconda del Louvre, portata prima da Firenze a Milano e poi venduta a Francesco I Re di Francia, non possa essere il Ritratto di Lisa del Giocondo commissionato a Firenze dal marito della giovane e tristissima Lisa Gherardini. Lisa non era una ragazzina qualunque, sua madre era una Rucellai – famiglia di banchieri – e suo marito – Francesco de Bartolomeo di Zanobi del Giocondo – era già membro del governo nel 1499. Lisa si era sposata a 16 anni e, perdendo una bambina di parto, aveva iniziato a soffrire di melanconia.

Gioconda (copia del Museo del Prado)

Sicuramente Leonardo aveva incassato un acconto per eseguire il ritratto, quindi risulta difficile che nel 1506 abbia ricevuto il permesso dalla Signoria di recarsi a Milano, su richiesta di Charles d’Amboise – governatore francese di Milano -, senza consegnare ad un influente membro dell’amministrazione il ritratto della giovane moglie, finito o non finito che fosse. Che Leonardo avesse molto altro per la testa è certo, come è probabile che anche per questo ritratto avesse iniziato a lavorare su due cavalletti.
Ancor più intrigante è far ricorso alle fonti d’epoca: nella corrispondenza datata 1501 con Isabella d’Este, il frate Pietro Nuvolaria – dell’ordine carmelitano – scrive che “due discepoli del Leonardo erano in procinto di fare due ritratti e che il maestro di tanto in tanto vi dava una pennellata”. Più tardi anche Giovan Paolo Lomazzo – amico del Melzi e allievo ed erede di Leonardo – scriveva: “come il ritratto della Gioconda e di Monna Lisa“, lasciando intendere che si trattasse di due dipinti diversi.
Infine il proliferare di ritratti con la dama dall’intrigante sorriso, rappresentata più anziana di Lisa del Giocondo, rende lecito sospettare che Leonardo, a Firenze, abbia lavorato contemporaneamente su due cavalletti e che abbia lasciato un ritratto incompiuto, nella città, proprio a Francesco del Giocondo ed un altro, quello oggi al Louvre, terminato a Milano con il viso di un’altra dama».

“Monna Lisa Isleworth”, su concessione di Claudio Metzger

Qual è il dipinto che ha dato origine a tutte le altre versioni e copie dall’originale?
«In questo secondo ritratto, terminato probabilmente a Milano ed oggi al Louvre, disponibile in bottega da copiare, si ravvisa l’origine delle innumerevoli versioni oggi note. Divertente è pure l’idea che gioconda, in ricordo di Lisa del Giocondo, sia velatamente un gioco di parole col francese joconde, che dovrebbe farci scoprire l’identità della modella milanese, visto che Lisa Gherardini era tutt’altro che allegra. Chi era dunque la dama gioconda rappresentata a Milano? Tutto ciò naturalmente contribuisce al mito ed al fascino della misteriosa tavola del Louvre senza dimenticare, perché palese all’occhio, la sua bellezza irraggiungibile.

Il sorriso di “Monna Lisa Isleworth”, su concessione di Claudio Metzger

Queste riflessioni rendono ancora più interessante, fra le tante, una versione non finita di una presunta giovane Monna Lisa: è un dipinto su tela e non su tavola di pioppo che, però, presenta a lato le colonne, come viste e dipinte da Raffaello in un famoso disegno; il dipinto, detto Monna Lisa Isleworth, scoperto in Inghilterra nel 1913 dal noto collezionista Hugh Blaker e pubblicato da Henry Pulitzer, è oggi proprietà di una fondazione svizzera. Quest’ultima ne promuove l’autografia di Leonardo in mostre internazionali, l’ultima a Firenze lo scorso 7 giugno nel Palazzo Bastogi. Il giudizio finale oltre alla scienza, che quando non nega non può da sola confermare un’attribuzione, dovrebbe comunque spettare all’occhio del conoscitore. Intanto si legge che anche la Isleworth è coinvolta in vicende giudiziarie legate alla proprietà…affaire à suivre

Salvator Mundi

E del Salvator Mundi che ha raggiunto la copia della Gioconda appena scoperta, prelevato dalla basilica di San Domenico Maggiore di Napoli, attributo prima ad un pittore lombardo e poi a Leonardo da Vinci?
«Salvator Mundi è una storia parallela, ed in fondo altrettanto comprensibile, se si considera che replicare un’invenzione pittorica di successo nel Cinquecento era normale: diffondeva la fama dell’inventore oltre al prestigio del proprietario dell’originale».

A questo punto, per farsi un’idea, non resta che andare a vedere i due quadri: saranno, infatti, visibili al pubblico nella mostra, dedicata al 500esimo anniversario dalla scomparsa di Leonardo da Vinci, che l’Accademia dei Lincei inaugurerà a Roma il 4 ottobre.

Biografia:
Claudio Metzger, Historian, Numismatist, Art Connoisseur.
1975, Graduate of Collegio Papio of Ascona, 1979, History and Political Science at the Faculty of Philosophy (phil I) of the University of Zurich, followed by studies in classical numismatics. Curator of classical numismatics in the family company Centro Numismatico, founded 1970 by Gina Metzger. Researches in ancient art, both in the Middle East, Irak and in the Far East, including areas along the Silk Road. Consultant of the City Museum of Modern Art of Ascona. International Cultural promoter with various responsibilities. Founder of the Aion Group. Founder and member of the Board of Aion Masterpieces SA.

Daniela Gulino

Informazioni mostra
“Il trittico dell’ingegno italiano: Leonardo 1519 – 2019”
www.lincei.it

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Il furto del water d’oro di Cattelan: provocazione o colpo grosso? https://www.artevarese.com/il-furto-del-water-doro-di-cattelan-provocazione-o-colpo-grosso/ https://www.artevarese.com/il-furto-del-water-doro-di-cattelan-provocazione-o-colpo-grosso/#respond Tue, 24 Sep 2019 12:18:25 +0000 https://www.artevarese.com/?p=52726 Sono passati dieci giorni dall’alba del 14 settembre 2019, quando “America” – la nota opera dell’artista concettuale italiano Maurizio Cattelan – è stata rubata alla Blenheim Art Foundation di Woodstock nel Regno Unito, a due giorni dall’inaugurazione della mostra. Incuriositi dall’accaduto, che si potrebbe definire “surrealista”, mentre le indagini per recuperare la tazza dorata sono […]

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Sono passati dieci giorni dall’alba del 14 settembre 2019, quando “America” – la nota opera dell’artista concettuale italiano Maurizio Cattelan – è stata rubata alla Blenheim Art Foundation di Woodstock nel Regno Unito, a due giorni dall’inaugurazione della mostra. Incuriositi dall’accaduto, che si potrebbe definire “surrealista”, mentre le indagini per recuperare la tazza dorata sono ancora in corso, abbiamo chiesto al Professor Paolo Giansiracusa – storico dell’arte e accademico di fama internazionale – un’intervista sulla celeberrima toilette in oro 18 carati stimata un milione di sterline.

Una domanda schietta: cosa ne pensa del furto del gabinetto d’oro di Cattelan?
«Ad essere buono penso che si tratti di una trovata pubblicitaria. Un po’ come quella che accompagna i fidanzati illustri di certe veline. L’amore (si fa per dire) dura una notte ma fa tanto di quel rumore che la velina il giorno dopo acquista medaglie e diventa presentatrice o addirittura deputata al parlamento.  Ormai il metodo è sperimentato: quando ti accorgi che la patina del similoro si va ossidando, si ricorre ad una passata di brillantante e così l’oggetto insignificante torna ad essere luccicante, come prima, più di prima. È un metodo a cui sono costretti a ricorrere però tutti i “metalli” che si ossidano, i “metalli” scadenti che fanno la ruggine anche con un insignificante velo d’umido. Al metallo nobile (all’arte vera) non succede. L’Arte non teme l’umidità, brilla sempre per il suo valore espressivo, per la sua qualità tecnica, per il suo carattere stilistico, per la grammatica che ne regge la struttura e la forma, il colore e il segno, la materia e lo spazio. Le balordaggini purtroppo hanno il problema di ridarsi la corda ogni mattina, come i vecchi orologi a cucù. Ecco dunque che per riprendere quota mediatica, per ritornare nel giro delle nuvole e il fumo, ci vuole uno scandalo, un furto, una bravata, un rumore così forte da far girare tutti. Alla fine però girandoci per capire ci accorgiamo che non c’è nulla da comprendere; ciò che si percepisce e amareggia è un grande vuoto tenuto in tensione da colossali meteorismi che prendono la forma di prese per i fondelli».

I ladri hanno fatto il “colpo grosso”?
«Penso di sì ma sto pensando a tutt’altro, rispetto a quello che lei intende, e me ne scuso.  Colpo grosso per chi? Per chi ha messo in piedi la possibile montatura o per chi ha sottratto il “capolavoro”? Se c’è una finzione ben congegnata il colpo grosso l’ha fatto chi ha costruito la notizia, se siamo davanti ad un furto vero il ladro ha commesso un gravissimo errore. In prima istanza non ha previsto che l’oggetto è invendibile e quindi non troverà acquirenti che possano rilevarlo. Ammesso poi che voglia venderlo come metallo da fondere, potrebbe avere la triste delusione di apprendere che forse la lega non è quella sperata. E in ogni caso volendo rimetterlo in commercio vale più per ciò che sembra e non per ciò che è. Questo è nel destino di molti manufatti della cosiddetta arte contemporanea, se si scopre che il re è nudo, si conosce la fine della barzelletta. Ci si fa una gran risata e si lascia lievitare la sorpresa per un’altra “trovatona”. Però il ripetersi di certe “sfilate” con abiti inesistenti hanno smaliziato a tal punto il pubblico che a crederci, paradossalmente, sono rimasti i sarti magici e il povero sovrano. Cosa resterà? Un bel nulla. Si sciolgono i ghiacciai che pure c’erano, figurarsi ciò che non è mai esistito».

Qual è il suo pensiero sull’opera in sé invece?
«Opera? È una parola grossa. Per opera intendo Norma di Vincenzo BelliniGuernica di Pablo PicassoVilla Savoye di Le Corbusier… cioè qualcosa di complesso che in sintesi rappresenta il pensiero del proprio tempo. Dopo l’orinatoio di Duchamp e il ferro da stiro di Man Ray, tutto il resto è noia, poiché si tratta di una ripetizione stressante, insopportabile. Nel vocabolario la parola acqua è scritta una volta, non dieci, cento, mille volte. Una volta vale l’invenzione del termine. Ripeterlo, volendo far sembrare che sia nuovo, significa non avere rispetto per l’intelligenza umana. Dada è morto! L’anticonformismo, la ribellione, la contestazione, valgono all’interno di uno spazio temporale strettissimo. Poi bisogna subito ritornare a costruire, a creare spazi e forme di civiltà. Quindi, cosa ne penso? Ne penso male, perché nel tempo del recupero dei valori, nel tempo della liberazione del mondo dalla plastica e dall’inquinamento, nel tempo della ricerca di sistemi di sfruttamento di energie eoliche e solari, nel tempo del dramma quotidiano costituito dalla spazzatura che ci sommerge, nel tempo del dolore che attanaglia il Mediterraneo, diventato la tomba fisica e morale dell’Africa, suonano male certe trovate. Vedo l’artista del nostro tempo sulla barricata del dolore e non sulla cresta d’oro del potere!»

Se lo ricorda il film Le vacanze intelligenti in cui Alberto Sordi va in vacanza alla Biennale di Venezia?
«Lo ricordo con piacere e ancora oggi a pensarci mi viene da ridere. La cosiddetta body art ha contaminato il campo dell’arte con forme di spaesamento che sfiorano i drammi della psichiatria. La gente non sa come comportarsi e a volte anche tra addetti ai lavori c’è un forte imbarazzo. Che fare? Lo dico? Sto zitto? Faccio finta d’aver capito e passo avanti? Così, tutti a far corteo attorno alle stupidità, alle scempiaggini, al nulla. Purtroppo siamo arrivati al punto di non ritorno. Ci si stupisce, e se ne discute per giorni, dell’amore tradito della modella slovena e si passa indifferenti davanti al mal capitato investito per strada. Ci si tuffa a fare la fotografia o il video del dramma che si sta consumando davanti ai nostri occhi e non si alza un dito per fermarlo. Siamo spettatori assurdi di un non luogo. Fotografiamo, documentiamo immagini che diventano più importanti del soggetto ripreso. Ci fermiamo all’epidermide o ci accontentiamo dell’espressione della vita-giocattolo. Si pensi in tal senso a tutto l’interesse sacrosanto per gli animali che non è bilanciato con quello riservato agli uomini. L’uomo deve rivedersi dentro l’armadio del suo essere per mettere ordine ai valori, alle priorità. L’uomo deve ritornare alla sostanza delle cose quotidiane per rispettarne l’essenza. L’artista in tale contesto non può fuggire, deve scontrarsi con i problemi e tentarne la soluzione. Non c’è l’arte dove un anatroccolo di plastica si batte per milioni di euro, non c’è l’arte dove l’oggetto (non l’opera) sfugge all’equilibrio generale del sistema che è fatto da tutti e non solo da quelli che vivono dentro la cassaforte di zio Paperone».

Biografia
Paolo Giansiracusa è docente ordinario universitario di Storia dell’Arte Contemporanea. È titolare della prima cattedra di Storia dell’Arte all’Accademia di Belle Arti di Catania. Dirige il Polo Museale della Città di Troina dove sono custodite opere di Tiziano, Scipione Pulzone e i seguaci di Antonello da Messina. È Direttore del Museo Civico d’Arte Contemporanea di Floridia ed è stato insignito della laurea honoris causa dall’Accademia di Belle Arti Albertina di Torino. È componente dell’Istituto Nazionale del Dramma Antico e ha pubblicato numerose monografie d’arte con gli editori Fabbri Bompiani e altri. Ha tenuto lezioni sull’arte moderna e contemporanea per diverse università negli USA, in Irlanda, a Malta.

Daniela Gulino

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Preraffaeliti, il risveglio della coscienza tra sacro e profano https://www.artevarese.com/preraffaeliti-il-risveglio-della-coscienza-tra-sacro-e-profano/ https://www.artevarese.com/preraffaeliti-il-risveglio-della-coscienza-tra-sacro-e-profano/#respond Mon, 16 Sep 2019 10:00:54 +0000 https://www.artevarese.com/?p=52543 Milano – Manca poco alla fine della mostra – “Preraffaeliti. Amore e Desiderio”- allestita nelle sale di Palazzo Reale a Milano e curata da Carol Jacobi. Un’ultima occasione per godere degli ottanta maestosi dipinti-gioiello che, dopo il 6 ottobre, torneranno alla Tate Gallery di Londra. Le opere rappresentano il risveglio della coscienza, tra sacro e profano, […]

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Milano – Manca poco alla fine della mostra – “Preraffaeliti. Amore e Desiderio”- allestita nelle sale di Palazzo Reale a Milano e curata da Carol Jacobi. Un’ultima occasione per godere degli ottanta maestosi dipinti-gioiello che, dopo il 6 ottobre, torneranno alla Tate Gallery di Londra.
Le opere rappresentano il risveglio della coscienza, tra sacro e profano, di un gruppo di 18 giovani artisti che, ispirati dallo spirito del tempo, in un’epoca sconvolta da proteste popolari e sconvolgimenti, producono una rivoluzione artistica.

Nel 1848 i cambiamenti sociali e industriali ridefiniscono il lavoro, l’amore, la fede, l’arte: Dante Gabriel Rossetti, Wiliam Hunt, Ford Madox Brown, John Everett Millais, William Morris, Edward Burne-Jones, Woolner, Sthepens, Deverell e Collins, attraverso una serie di scissioni e di adesioni, formano uno dei più interessanti movimenti dell’arte europea del XIX secolo.
Il nome dato alla confraternita giustifica le distanze dalla compostezza vittoriana inglese, dalla convenzione sociale ed artistica della precostituita retorica accademica e dalle regole pittoriche di Raffaello. Ammirano Overbeck, i Nazareni, la vita comunitaria ed ascetica fondata sugli ideali di uguaglianza, fede, patriottismo,gloria e onore, e guardano al socialismo inglese, alle campagne per una maggior eguaglianza di diritti, all’emancipazione, ad un nuovo ordine di norme morali, domestiche e sociali.

Teorico del movimento è il critico e collezionista John Ruskin che, attraverso la musica e il romanticismo, contesta le politiche nazionali ed internazionali con una grande risonanza sulla pittura contemporanea; grazie al suo appoggio, come a quello di altri intellettuali, i preraffaeliti rilanciano con convinzione il ruolo “morale” dell’arte, il suo valore esemplare, il suo messaggio fuori dal tempo.

La confraternita racconta tutto ciò attraverso la ribellione profonda dei loro soggetti provocatori, introducendo nell’arte e nella poesia nuovi significati:amori ideali tra le rovine, bellezza del paesaggio, donne fatali e misteriose, malinconia interiore, sogni ad occhi aperti, suggestioni medievali, brividi simbolisti, richiami shakespeariani, velati languori romantici, compostezza vittoriana e il gusto per una pittura “bella”, non contaminata dalle mode e  dichiaratamente ispirata al Quattrocento italiano, ma non per questo rifugiata nel passato.
I loro dipinti riflettono i cambiamenti sociali, l’emigrazione, le difficoltà e le preoccupazioni della vita e degli ambienti dell’epoca: amanti divisi dalle famiglie, dal ceto o dal denaro; con un’idea non convenzionale dell’amore sfidano la concezione vittoriana sul ruolo della donna. Queste ultime, nei loro dipinti, sono forze potenti, misteriose e distruttive: dee, incantatrici e mitiche femmes fatales. Un’eco di vita vera, visioni ravvicinate, drammi personali ed intimi delle loro vite bohémien. Le modelle, che diventano icone di moda e bellezza, sono amiche e compagne degli artisti, criticate all’inizio per l’aspetto comune ed ordinario.

Daniela Gulino

Informazioni:
www.mostrapreraffaelliti.it
www.palazzorealemilano.it

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Nel 1911 era la più alta d’Italia https://www.artevarese.com/nel-1911-era-la-piu-alta-ditalia/ https://www.artevarese.com/nel-1911-era-la-piu-alta-ditalia/#respond Fri, 20 Jul 2018 10:33:05 +0000 https://www.artevarese.com/?p=46057 La Stazione di arrivo della funicolare del Campo dei Fiori è un piccolo gioiellino realizzato tra il 1909 e il 1911 dall’architetto Giuseppe Sommaruga nell’ambito della più ampia progettazione del complesso del Grand Hotel Tre Croci, imponente e allo stesso tempo ben integrato nel contesto naturale, con annesso ristorante e appunto stazione di arrivo della […]

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La Stazione di arrivo della funicolare del Campo dei Fiori è un piccolo gioiellino realizzato tra il 1909 e il 1911 dall’architetto Giuseppe Sommaruga nell’ambito della più ampia progettazione del complesso del Grand Hotel Tre Croci, imponente e allo stesso tempo ben integrato nel contesto naturale, con annesso ristorante e appunto stazione di arrivo della funicolare.

La palazzina comprende a piano terra una grande sala d’aspetto, la sala macchine realizzata nel sotterraneo e l’abitazione del responsabile dell’impianto macchine al piano superiore.

 

 

L’edificio verte in stato di abbandono e noi che abbiamo avuto la fortuna di visitarlo in occasione del remake del film “Suspiria”, quando era adibito a falegnameria per la costruzione del set cinematografico, abbiamo constatato che ben poco rimane dell’antico splendore: ci sono cedimenti dei soffitti in vari punti, non esiste più alcun arredo se non la struttura della biglietteria interna in legno, che tra l’altro è ben conservata e qualche  mobilio della casa del responsabile. L’esterno è stato in gran parte spogliato delle pensiline, delle ringhiere e dei lampioni in ferro battuto.

La stazione presenta una parte inclinata che accoglie il percorso di arrivo della funicolare, una volta coperta da una pensilina, sostenuta da un unico arco rampante. Il fabbricato della stazione vera e propria, a pianta quadrata, si protende a sbalzo verso il percorso di arrivo e presenta una copertura altrettanto inclinata con due coppie archi rampanti.  Il paramento è interamente in pietra locale a vista, alternata con fasce di cemento. Nonostante le contenute dimensioni dell’edificio e il carattere di servizio ha lo stesso vigore espressivo di quelli maggiori, grazie ad un architetto capace di elevare ad altissima qualità architettonica anche una piccola costruzione.

Il trasporto su funicolare si colloca in un più ampio programma di sviluppo e di ingegnoso sfruttamento delle peculiari caratteristiche del territorio che fecero di Varese, nella prima metà del Novecento, una città di prim’ordine nell’ambito dell’accoglienza turistica e delle infrastrutture.

Ad esso contribuirono in larga parte le iniziative e le realizzazioni della “Società Anonima Grandi Alberghi Varesini” e della “Società Varesina delle Imprese Elettriche”. In particolare furono realizzati sul Colle Campigli, tra il 1910 e il 1913, il complesso comprendente il Kursaal, il Grand Hotel Palace – questo realizzato sempre su progetto del Sommaruga – che si occupò anche del restauro del Kursaal e della costruzione di un teatro annesso- e la funicolare che collegava il colle alla tramvia Varese-Masnago.

Il caratteristico mezzo di trasporto su rotaie della funicolare permise di attuare un agevole ed immediato collegamento con altri due luoghi chiave delle mete turistiche varesine: il Sacro Monte e da qui, a valle della prima cappella, attraverso una seconda linea, il Monte Tre Croci al Campo dei Fiori dove il Sommaruga nella costruzione del Grand Hotel attuò ardite soluzioni strutturali, volumetriche e decorative che ne fecero uno dei grandi maestri del Liberty italiano.

La prima a essere realizzata fu proprio la stazione di arrivo della funicolare. Il progetto era già pronto nel 1909 insieme a quello generale di tutto il complesso che però il Sommaruga dovette ridimensionare per ragioni economiche e inoltre venne abbandonata la soluzione iniziale della stazione addossata al corpo avanzato verso sud e collegato all’albergo, in quanto il meccanismo motore avrebbe certamente creato troppo rumore. La stazione venne quindi eretta separatamente a metà strada tra l’albergo e il ristorante. I lavori della funicolare, tecnologicamente all’avanguardia, (era allora la più alta d’Italia, giungendo a quota 1032 metri con un dislivello di 401 metri) furono compiuti in due anni e l’apertura dell’esercizio avvenne il 20 aprile 1911.

L’esercizio delle funicolari, segnando la fine di un’epoca, venne chiuso nel 1953 e le strutture smantellate nel 1956.

Cristina Pesaro

 

 

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Un “raggio di Giotto” al Battistero di Varese https://www.artevarese.com/un-raggio-di-giotto-al-battistero-di-varese/ https://www.artevarese.com/un-raggio-di-giotto-al-battistero-di-varese/#respond Thu, 19 Jul 2018 09:45:53 +0000 https://www.artevarese.com/?p=46050 “Il quale maestro Giotto, tornato da Milano, che il nostro comune ve l’aveva mandato, al servizio del signor di Milano, passò di questa vita”. Così il cronistra fiorentino Giovanni Villani ricorda un soggiorno di Giotto a Milano, successivo al ritorno da Napoli. Un periodo non lungo, che si dovrebbe fissare attorno al 1335-1336, poco prima […]

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Il quale maestro Giotto, tornato da Milano, che il nostro comune ve l’aveva mandato, al servizio del signor di Milano, passò di questa vita”. Così il cronistra fiorentino Giovanni Villani ricorda un soggiorno di Giotto a Milano, successivo al ritorno da Napoli. Un periodo non lungo, che si dovrebbe fissare attorno al 1335-1336, poco prima della sua morte, avvenuta nel 1337.

L’attività nel capoluogo milanese si inserì in una fase di forte espansione economico-commerciale della città, coincidente con l’affermazione politica dei Visconti. Sia Azzone (Signore di Milano dal 1330 al 1339), sia lo zio Giovanni arcivescovo di Milano, furono sostenitori di una vera e propria riqualificazione urbanistica e artistica della città, attestata dalla contemporanea presenza di uno scultore toscano come Giovanni di Balduccio e connessa all’affermazione del proprio prestigio dinastico e istituzionale.

Di questo breve passaggio restano altissimi echi in affreschi che risentono in maniera molto forte del tardo linguaggio giottesco: su tutti la Crocifissione  che possiamo ammirare in quella che era la cappella ducale, l’attuale Chiesa di San Gottardo in Corte.

Il passaggio del Maestro, ormai anziano, e dei suoi più stretti collaboratori, determinò un’importante svolta, anche dal punto di vista tecnico, nel panorama figurativo lombardo, soprattutto in sedi più o meno direttamente legate al mecenatismo visconteo, che si protrasse oltre alla metà del Trecento con la presenza di artisti formatisi nei cantieri giotteschi, come il fiorentino Giusto de’ Menabuoi nell’abbazia umiliata di Viboldone, a pochi chilometri da Chiaravalle, e la personalità di Giovanni da Milano, attivo in Toscana nel terzo quarto del XIV secolo.

È certo però che Giotto non giunse in una terra artisticamente deserta, ma piuttosto nel bel mezzo di una risolgente attività costituita da rapporti e influenze, innestati in una tradizione figurativa locale caratterizzata dal realismo e da un gusto tutto particolare per la narrazione.

Tanto noto quanto velato di mistero, l’anonimo “Maestro della Tomba Fissiraga”, così chiamato per via dei suoi affreschi, datati attorno al 1316, che decorano la tomba di Antonio Fissiraga in San Francesco a Lodi, è certamente una tra le personalità della pittura lombarda del primo Trecento più incisive. È la sua presenza nel Battistero di san Giovanni a Varese a portare sostanziali novità, rinnovando radicalmente il panorama dell’attività pittorica locale.

Nell’area presbiteriale del Battistero varesino si concentra una ricchissima antologia di pitture eterogenee per stile, qualità e cronologia. Tra queste spicca la Madonna della Misericordia, la cui data di esecuzione cadrebbe circa venti anni prima dell’arrivo di Giotto a Milano. Gli studi di Santina Novelli sono riusciti infatti a mettere in luce committenza e datazione, grazie allo stemma (a bande scure su sfondo bianco) con il cappello cardinalizio, raffigurato accanto alla figura della Madonna e ricondotto a Luca Fieschi, giovane cardinale genovese, amico di papa Bonifacio VIII, particolarmente in vista alla corte di Avignone. L’identità del committente è confermata inoltre da due lettere papali, conservate presso gli archivi vaticani, nelle quali si fa riferimento a benefici ecclesiastici conferiti ad un canonico varesino che dovrebbe essere un familiare (“non necessariamente un consanguineo”, sottolinea la Novelli) del cardinale Fieschi. Non solo: altri documenti confermerebbero la presenza del giovane cardinale proprio negli anni Dieci del Trecento, in visita al parente Prevosto di Varese.

Sulla stessa parete di fondo del presbiterio rimangono un frammento di Crocifissione che ci permette tuttavia di cogliere il sapiente tocco del Maestro nella decorazione del perizoma leggerissimo di Cristo o nella figura di san Giovanni ai piedi della croce, e una Madonna con Bambino e San Giovanni Battista, la cui impostazione rimanda al dipinto votivo lodigiano.

Nella grande scena di un’altra Crocifissione, quella sulla parete destra dell’arcone trionfale, il pittore trova l’occasione di cimentarsi nell’azione e il racconto giunge a una carica drammatica di particolare intensità, resa tramite una minuzione e realistica passione per i dettagli.

La drammaticità di questo affresco contrasta con la ieraticità degli Apostoli e Santi della parete meridionale del presbiterio. La critica non è stata unanime nell’attribuire questa teoria al Maestro della tomba Fissiraga, ma la qualità è notevole e non pochi sono i caratteri comuni ai tratti ticipi del pittore.

Dunque un compendio di affreschi fondamentale che ci aiuta a capire come questo Maestro “girovago” in Italia abbia saputo portare a Varese precocemente il linguaggio stilistico germinato dalla Basilica Superiore di Assisi.

 

Massimo Biumi

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Urban Solid: quando la scultura scende in strada e parla https://www.artevarese.com/urban-solid-quando-la-scultura-scende-in-strada-e-parla/ https://www.artevarese.com/urban-solid-quando-la-scultura-scende-in-strada-e-parla/#respond Sat, 07 Jul 2018 10:47:40 +0000 https://www.artevarese.com/?p=45962 Imbattersi in graffiti e opere murali è ormai all’ordine del giorno quando si passeggia per le vie delle città. I muri, infatti, sono vere e proprie gallerie d’arte a cielo aperto ed ospitano diverse categorie di urban art, dalle opere commissionate ai graffiti spray e fuggi, ma questo mondo è ricco di sorprese e sfumature […]

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Imbattersi in graffiti e opere murali è ormai all’ordine del giorno quando si passeggia per le vie delle città. I muri, infatti, sono vere e proprie gallerie d’arte a cielo aperto ed ospitano diverse categorie di urban art, dalle opere commissionate ai graffiti spray e fuggi, ma questo mondo è ricco di sorprese e sfumature e gli Urban Solid sono una venatura di colore acceso in questo contesto artistico.

Alto Milanese, Busto Arsizio, ecco dove operano i due artisti, amici da una vita, Riccardo e Gabriele. E qui, nel loro studio, prendono vita le loro idee prima di prendere forma solida e venire piazzate nelle strade delle città italiane ed europee, più o meno conosciute.

“Il progetto e il nome Urban Solid nascono nel 2009” racconta Gabriele “Il tutto nasce da un’amicizia che dura fin dai tempi delle scuole elementari. Sia io che il mio socio Riccardo abbiamo frequentato Brera; lui il corso di pittura, mentre io quello di decorazione, avvicinandoci alla scultura durante questi anni universitari, scoprendo la voglia di sperimentare diverse tecniche.”

È a Milano che iniziano a sperimentare e a creare la loro galleria urbana a cielo aperto, lasciando diversi solidi specie in zona Tortona e Porta Genova come, per esempio, i padiglioni auricolari che denunciano l’inquinamento acustico.

“Volevamo uscire allo scoperto. Volevamo dire la nostra opinione e l’idea di abbandonare solidi in giro per la strada era il nostro modo di comunicare il nostro pensiero: un’esigenza comunicativa a sfondo sociale.”

Dal capoluogo lombardo alle grandi capitali europee il passo è breve. Il nome degli Urban Solid, così come le loro opere, è ben conosciuto ed apprezzato a livello internazionale. Parigi, il Lussemburgo, Londra, dalla quale sono da poco tornati, sono soltanto alcuni dei luoghi in cui i due artisti hanno fatto saggiare la loro creatività urlando contro il cielo.

Quotidianità, satira, denuncia, è questo che vogliono comunicare e questo arriva all’attento osservatore che, dopo una passeggiata all’ombra dei palazzoni o una pesante giornata lavorativa, è colto da questi messaggi forti su strada. Arte plastica che parla, che urla contro gli stereotipi, ecco una probabile definizione del loro lavoro. Solidi, sculture, ma anche altre tecniche, in continua sperimentazione ma, come conferma Gabriele “Abbiamo sempre usato le bombolette, specie per colorare le nostre opere, ma in strada esponiamo solo ed esclusivamente sculture prendendo ispirazione da tutto quello che ci è attorno ed è all’ordine del giorno: media e quotidianità.”

Ma se la strada è la loro galleria a cielo aperto, non mancano le collaborazioni con gli spazi chiusi, come aziende e gallerie d’arte, sia in ambito locale, che europeo.

“Mostre ne facciamo, una delle ultime è stata quella organizzata a Villa Brentano di Busto Garolfo, per noi è un modo come un altro per farci conoscere ed esporre il nostro lavoro in ambienti chiusi. Abbiamo poi molti progetti e molte collaborazioni attive, come quella legata agli Urban Coin in cooperazione con un’azienda informatica di Busto Arsizio.”

Quando si parla degli Urban Solid è impossibile non pensare alle loro opere più comuni e note: i manichini dei supereroi o a quelli di Adamo ed Eva. Gabriele, però, racconta di essere legato alle loro prime opere:
“È difficile scegliere un’opera, dire a quale sei più legato, ma se ci penso un attimo direi le prime sculture, specie la testa che emerge dall’asfalto con le dita.”

 

Ileana Trovarelli

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Il Sindaco Galimberti racconta l’Arte di Varese https://www.artevarese.com/il-sindaco-galimberti-racconta-larte-di-varese/ https://www.artevarese.com/il-sindaco-galimberti-racconta-larte-di-varese/#respond Wed, 13 Jun 2018 15:00:20 +0000 https://www.artevarese.com/?p=45536 Il sindaco di Varese Davide Galimberti ha parlato con Artevarese delle tante testimonianze artistiche della città, spiegando come la giunta si prenda cura di opere e luoghi. Ha quindi parlato di Politica nel senso originario del termine di “arte che attiene alla città” prima che di “tecnica di governo”. Anche se le due cose procedono […]

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Il sindaco di Varese Davide Galimberti ha parlato con Artevarese delle tante testimonianze artistiche della città, spiegando come la giunta si prenda cura di opere e luoghi. Ha quindi parlato di Politica nel senso originario del termine di “arte che attiene alla città” prima che di “tecnica di governo”. Anche se le due cose procedono senza dubbio insieme.

«L’essere Sindaco di Varese è un impegno totalizzante e bellissimo – esordisce Galimberti. – Tanti sono i momenti di incontro con i cittadini e il confronto è la cosa più bella. Si raccolgono idee e opinioni per poi trasformarle in concretezza. Compito di un’Amministrazione è quello di recepire quelle che sono le esigenze principali per tradurle poi in provvedimenti attuativi il più rapidamente possibile. Perché questo fa la differenza ed è un modo per riavvicinare i cittadini alla politica».

Il sindaco prosegue parlando di restauri: «Uno degli aspetti fondamentali su cui stiamo lavorando è il tema del recupero di alcuni beni storici della nostra città.

Penso alla Torre Robbioni, che è stata risanata nel mese di maggio, e alla proposta che stiamo avviando per il restauro di una parte del Castello di Belforte: un luogo simbolo per quel quartiere. Pochi giorni fa ho incontrato i cittadini di Belforte proprio per presentare il progetto e mi ha colpito il numero dei presenti: più di 100 persone che desideravano poter nuovamente accedere al castello. E’ un altro segnale che dimostra quanta attenzione sia giusto dedicare anche ai beni monumentali e culturali».

Sebbene le risorse in questo ambito siano estremamente ridotte l’Amministrazione Comunale vuole dare dei segnali positivi. «Uno dei nostri obiettivi – spiega Galimberti – è far sì che a Varese tornino le grandi mostre. L’assessore alla Cultura Roberto Cecchi sta lavorando con grande attenzione per far diventare la nostra città un punto di riferimento in questo ambito.

Nel 2019 Villa Mirabello ospiterà la mostra di Renato Guttuso, che aspettiamo da tanto tempo. Poi abbiamo una relazione con il FAI: da decenni Villa Panza è un punto di riferimento dell’arte, non solo a Varese ma in Europa. Vogliamo creare sempre più sinergie con questa bella realtà».

«Varese ha la fortuna di avere due Siti Unesco sul territorio comunale: una particolarità assoluta di cui tener conto – prosegue il Primo Cittadino. – Questi due luoghi simbolo sono l’Isolino Virginia e il Sacro Monte. Posta la premessa dell’importanza di arrivare a un risanamento del nostro Lago, ricordiamo che la presenza dell’Isolino è un’ulteriore occasione di sviluppo.

Questo luogo preistorico incantevole deve essere promosso ancora più di quanto si faccia: gli studiosi ne apprezzano moltissimo le caratteristiche, è già frequentato dagli studenti, ma penso che possa essere maggiormente divulgato e narrato ai turisti. Abbiamo presentato recentemente un progetto di sviluppo che intende valorizzare anche quegli scavi che oggi sono abbandonati. Bisogna costruire un racconto attorno a questo luogo importante, con il sostegno dell’Università dell’Insubria, che è già impegnata sul posto».

Il secondo sito Unesco è il Sacro Monte, un luogo d’incontro di Fede, Arte e Natura.
«Per essere affascinati dal Sacro Monte basta avere la possibilità di guardarlo, di trascorrervi qualche ora. – sottolinea il Sindaco – Bisogna potenziare l’accessibilità, che è uno dei maggiori problemi. Per questo abbiamo insistito tantissimo sulla possibilità di raggiungerlo in due modi: implementando il trasporto pubblico – i cittadini sono disponibili ad apprezzarne la funzione se il servizio funziona – e ripristinando la funicolare,  che ha avuto un’esplosione incredibile di utenti: siamo passati da circa 15.000 a 50.000 nel 2017, con aperture serali e notturne. Si tratta di promozioni che possono sicuramente aumentare l’attrattiva di un territorio».

«Per la nostra città è importante un posizionamento nell’ambito turistico-culturale. – continua Galimberti – Per questo siamo felici della grande risposta al Festival del Paesaggio Nature Urbane, di cui abbiamo avuto la 1^ edizione lo scorso anno.

L’evento ha ottenuto un’attenzione incredibile sia nelle aree metropolitane che in Svizzera, facendo sì che nel corso dell’anno molte persone, incuriosite dalle bellezze varesine ammirate durante il Festival, abbiano raggiunto la nostra bella Varese per scoprirne le caratteristiche».

«A Varese ci sono oltre 100 parchi  e ville storici su cui c’è un vincolo di pregio da parte della Soprintendenza Belle Arti e Paesaggio. Abbiamo deciso di fare di questa bellezza un’occasione di promozione turistica, oltre che di analisi, offrendo ai cittadini anche l’occasione di vivere dei momenti artistici assistendo a spettacoli inediti, come è accaduto lo scorso anno con il concerto di Mario Brunello al Grand Hotel Campo dei Fiori».

«Vogliamo che Nature Urbane diventi un appuntamento fisso. Tutti i festival hanno un periodo di crescita: si parte da una prima edizione che ha determinate ambizioni e poi si cresce, con la collaborazione delle associazioni e gli interlocutori locali e la sinergia tra pubblico e privato».

«Nature Urbane tornerà il prossimo settembre e, in 10 giorni, approfondiremo un pensiero culturale legato a come debbano evolvere le città. Si parlerà del rapporto tra la natura e l’ambiente e della crescita delle città, si indagheranno gli aspetti architettonici e urbanistici, oltre che quelli della mobilità e della raccolta dei rifiuti. Saranno in primo piano la cultura del paesaggio, la natura, il rispetto dell’ambiente. Perché il Festival del Paesaggio, oltre agli approfondimenti culturali, prevede delle esperienze nell’ambiente naturale, come le camminate all’interno del Parco del Campo dei Fiori o escursioni in luoghi particolari.
Credo sia molto importante che tutti possano vedere e sperimentare le qualità ambientali e naturalistiche della nostra città e questa è la dimostrazione che si può fare cultura senza dover pagare un biglietto».

«L’anno scorso, oltre all’importante risposta dei varesini e dei turisti che volevano scoprire nuove aree della loro città, è stata fondamentale la partecipazione dei proprietari di molte grandi ville. E’ una cosa bellissima, perché non era affatto scontata! – aggiunge il Sindaco di Varese – Quest’anno sono aumentati i proprietari che hanno deciso di mettere a disposizione per 8-9 giorni il proprio giardino per i visitatori. Di questo li ringraziamo tantissimo».

Aspettando il prossimo settembre il Festival del Paesaggio Nature Urbane urbane prende il via con Nature Urbane Pop-Up una rassegna culturale ideata da Comune, proprio in un continuum narrativo con l’edizione autunnale.

Gli appuntamenti proseguiranno fino al prossimo 24 giugno e prevedono un racconto animato di alcuni luoghi simbolo della città giardino, affidato agli artisti varesini: Andrea Chiodi, Francesca Lombardi Mazzulli, Francesca Garolla e Marta Ciappina. A loro è stato chiesto di scegliere un luogo della città caro alla loro memoria e di raccontarlo attraverso diverse narrazioni e linguaggi, dalla musica alla danza contemporanea, dalla letteratura all’arte, dal teatro alle videoinstallazioni.

 

«Con la mia Giunta e i componenti del Consiglio Comunale stiamo lavorando davvero tanto e abbiamo grandi obiettivi che intendiamo realizzare rapidamente – conclude il sindaco Davide Galimberti – Grazie al sostegno dei cittadini e anche se ci vorrà del tempo, mi sembra che siamo sulla strada giusta».

Chiara Ambrosioni

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Vita da gallerista: a tu per tu con Diego Viapiana, Nuova Galleria Morone https://www.artevarese.com/vita-da-gallerista-a-tu-per-tu-con-diego-valpiana-nuova-galleria-morone/ https://www.artevarese.com/vita-da-gallerista-a-tu-per-tu-con-diego-valpiana-nuova-galleria-morone/#respond Sun, 13 May 2018 09:17:04 +0000 https://www.artevarese.com/?p=44986 Dalla stazione Duomo della metropolitana, per raggiungere Via Nerino 2, dove ha sede la Nuova Galleria Morone, per una intervista a Diego Viapiana titolare dello spazio, il percorso obbligato si snoda per via Torino con continui slalom tra persone che si arrestano inaspettatamente attratte dai prodotti esposti nelle vetrine; chi improvvisamente cambia direzione rischiando scontri […]

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Dalla stazione Duomo della metropolitana, per raggiungere Via Nerino 2, dove ha sede la Nuova Galleria Morone, per una intervista a Diego Viapiana titolare dello spazio, il percorso obbligato si snoda per via Torino con continui slalom tra persone che si arrestano inaspettatamente attratte dai prodotti esposti nelle vetrine; chi improvvisamente cambia direzione rischiando scontri frontali e chi a testa bassa, al pari di gnu in migrazione lenta, catalizza la sua attenzione sullo schermo del cellulare.

Svoltare in Via Maurilio rasserena e maggiormente quando si imbocca via Nerino.

Accolti con cordialità e conoscendo la nostra predilezione per le opere di Maria lai, Diego Viapiana ci riserva la gentilezza di farci accomodare di fronte a una sua tela, e l’intervista ha inizio.

Lei ha conseguito una laurea 110 con lode in Conservazione di Beni Culturali, a questo punto è interessante sapere quando è iniziata la sua passione per l’arte.

“Ero in gita scolastica ad Assisi e mentre i miei compagni erano presi da altri interessi entrai in Basilica e rimasi incantato dagli affreschi di Giotto, da li ho iniziato a interessarmi di arte, ma mai pensando di arrivare a fare il gallerista. Alla fine degli anni ’90 sono venuto a Milano con l’intento di capire, in prima persona, i meccanismi insiti nell’arte contemporanea, anche perché l’ambiente universitario manifesta pecche riguardo alla contemporaneità dell’arte”.

E’ poi approdato alla storica Galleria Morone fondata da Enzo Spadon, apprezzata per la coerenza espositiva.

“Si, aveva una linea precisa, dall’informale, all’astrazione lirica, in quel periodo ho potuto frequentare conoscere artisti di alta levatura, poi dopo tredici anni ho fatto il passo decisivo mettendomi in gioco in prima persona, modificando di poco il nome dello spazio che è diventato Nuova Galleria Morone, dando così vita a una Galleria con differenti scelte espositive”.

Come mai al di la dell’aggettivo “Nuova” non ha cambiato il nome della galleria?

“Innanzi tutto per riconoscenza nei confronti di chi, nel corso di tredici anni, mi aveva permesso di acquisire una notevole esperienza e inoltre avevo il timore che proponendomi con un nome nuovo avrei rischiato di perdere un certo numero di collezionisti, anche se poi, ne ho spiazzati molti con le mie scelte espositive”.

Lei ha al suo fianco una valida collaboratrice, quanto è importante poter contare sulla competenza altrui?

“I miei collaboratori sono al mio stesso livello, in mia assenza fanno le mie veci, mi riferisco soprattutto a Mara Pradella, è fondamentale che si lavori tutti nella stessa direzione. Quasi quotidianamente si presentano artisti che ci propongono i loro lavori e la nostra peculiarità, siamo tra i pochi, consiste nel dare a tutti una risposta”.

Oltre alla Galleria lei ha avuto l’intuizione di ideare la Project Room.

“ Che adesso fanno in tanti “ afferma sorridendo “ E’ uno spazio indipendente, nato sei anni fa e deve essere inteso come opportunità progettuale, non si deve pensare esclusivamente alla vendita anche se non è escluso possa accadere, deve essere un’esperienza tale da permettere all’artista una più completa comprensione del suo lavoro. Alcuni nella Project Room riescono a conferire al loro operato una potenza che non riuscirebbero a esprimere in Galleria”.

Per i loro acquisti i collezionisti, in questi ultimi tempi, frequentano fiere, acquistano alle aste, visitano gli studi degli artisti in quanto sono raggiungibili attraverso i siti internet. Ha ancora senso essere gallerista?

“Secondo me si, innanzi tutto perché il collezionista attuale è in gran misura un collezionismo speculativo, non acquistano per amore. Uno stand in fiera non ha la stessa pregnanza di una galleria, vedere una mostra in Galleria è importante per capire a pieno il lavoro di un artista e di conseguenza stabilire un rapporto di fiducia con il gallerista. Il mio compito fondamentale consiste nell’educare il collezionista. Purtroppo in Italia si è esagerato con le fiere, nonostante ciò, il vero collezionista frequenta le gallerie. I galleristi di levatura internazionale hanno fior di banche alle spalle e possono permettersi di decidere a tavolino le quotazioni di qualsivoglia opera d’arte. Sono convinto che molti che acquistano adesso Fontana, non hanno compreso il significato del taglio, lo acquistano perché è uno status symbol e perché è un assegno circolare che aumenta di valore con il passare del tempo. Insomma si deve acquistare per amore perché con un’opera d’arte ci si convive”.

Lei ha avuto l’intelligenza e la sensibilità di presentare a Milano le opere di Maria Lai quando i più si erano dimenticati del valore di questa grande artista.

“Ne avevo sempre sentito parlare; è stata una mostra vista a Palazzo Grassi a illuminarmi. Nel 2009 mi sono messo in contatto con lei e nel 2012 l’ho ospitata. L’ho sempre considerata una bravissima artista purtroppo molto sottovalutata era una persona eccezionale ed era anche molto generosa”.

Come è cambiato nel tempo il rapporto critico d’arte gallerista?

“Non esiste più la critica mirata, una volta sui quotidiani esisteva la terza pagina, era dedicata alla cultura, ora sempre più gli articoli di arte sono il copia–incolla dei comunicati stampa, chi li scrive non si sogna di andare a vedere le mostre. Il critico dovrebbe essere militante e confrontarsi sistematicamente con i galleristi. Potendomelo permettere, una mia idea sarebbe quella di affidare per un anno la programmazione della galleria a un critico, in questo modo si misurerebbe la consistenza progettuale e intellettuale del critico”.

Per finire facciamo un gioco: le dico alcuni nomi di artisti e lei di ognun o traccia brevemente un profilo umano e artistico.

Elizabeth Aro “E’ una artista che dovrebbe avere il coraggio di investire di più su se stessa e di conseguenza sul prodotto finale, molte volte si perde su alcuni aspetti che potrebbero essere migliorati”.

José Barrias “E’ un grande personaggio, un uomo di cultura vastissima ed è stato uno dei pochi ad ascoltarmi. Era venuto con una sua idea di mostra e io gliel’ho stravolta poi alla luce dei fatti mi ha dato ragione”.

Federica Marangoni “Bel personaggio, oltre ad essere artista è anche designer, è molto sicura di sé, posso dire che bisticciamo spesso, ci confrontiamo e ci scontriamo poi andiamo d’amore e d’accordo. Federica è diretta, ha il pregio di dire le cose in faccia”.

Altjon Valle “Lo conosco da quando era ragazzino. E’ geniale, il fatto stesso che a 28 anni ha partecipato alla Biennale di Venezia nel Padiglione dell’Albania la dice lunga. Ha l’ablità di trovare i finanziamenti per i suoi progetti. Il suo lavoro è eccezionale, credo che arriverà lontano”.

A questo punto mi dica un artista che non ho nominato e che le farebbe piacere ricordare

“Sono molto legato a Domenico Grenci, dal punto di vista umano è il migliore di tutti. Non stressa, non ha pretese, lavora con impegno e quando ritiene di avere finito ciò che sta facendo mi chiama per un confronto. Non ha timore di mettersi in discussione. Quest’anno in Germania ha avuto un notevole successo, nonostante ciò era dispiaciuto per gli artisti che non avevano venduto, questo la dice lunga sulla sua umanità”.

Al termine dell’intervista ci concediamo un ultimo sguardo all’opera di Maria Lai.

La cordialità dei saluti renderà più lieve la percorrenza di Via Torino.

Mauro Bianchini

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Manet, vita parigina “fin de siécle” https://www.artevarese.com/manet-vita-parigina-fin-de-sicle/ Wed, 08 Mar 2017 09:02:24 +0000 La Mostra di Palazzo Reale “Manet e la Parigi moderna”, che resterà aperta fino al 2 luglio prossimo, prodotta dal Comune di Milano con Mondo Mostre Skira, è stata curata da Guy Cogeval, storico presidente del Museo d’Orsay. Museo che, per l’occasione, ha prestato numerose opere. L’esposizione è interessante e suggestiva e fa respirare a […]

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La Mostra di Palazzo Reale “Manet e la Parigi moderna”, che resterà aperta fino al 2 luglio prossimo, prodotta dal Comune di Milano con Mondo Mostre Skira, è stata curata da Guy Cogeval, storico presidente del Museo d’Orsay. Museo che, per l’occasione, ha prestato numerose opere.
L’esposizione è interessante e suggestiva e fa respirare a chi la visita l’atmosfera parigina di quei tempi. Ėdouard Manet è presente con 16 opere su tela e 11 disegni e acquerelli, affiancato da numerosi altri artisti della sua epoca, come Gaugin , Monet, Renoir, Signac, Tissot, Berthe Morisot, Boldini, Cézanne, Degas, Fantin-Latour.
Se è vero che viene ricostruito un certo clima culturale dell’epoca, è peraltro meno facile cogliere appieno l’originalità e la modernità di Manet. In realtà, Parigi resta il centro dell’esposizione a Palazzo Reale e ce lo confermano anche i titoli delle dieci sale nelle quali l’allestimento ha diviso il percorso della visita: Manet e la sua cerchia, Parigi città moderna, Sulle rive, “Natura inanimata”, “L’heure espagnole”, il volto nascosto di Parigi, L’Opéra, Parigi in festa. L’universo femminile. In bianco e …nero. Passante e il suo mistero.
Manet e la sua città
Peraltro, nessuno come Manet seppe cogliere le atmosfere della città che stava cambiando pelle e si preparava a diventare la “capitale delle capitali” sotto il suo simbolo per eccellenza, la Tour Eiffel, che sarebbe stata realizzata appena qualche anno dopo la sua morte.
Parigi, la rinata “Ville Lumiere”, era una città che cercava di dimenticare i bassifondi descritti da Hugo – spesso focolai di malavita e di movimenti di ribellione. Un contributo importante lo diedero gli interventi urbanistici del prefetto Haussmann che, sotto l’impulso di Napoleone III, smantellò i quartieri più degradati, cercando di separare la zona abitata da borghesi da quella dei ceti più poveri.
La ristrutturazione cambiò il volto della viabilità cittadina con la creazione di piazze e grandi boulevard, allo scopo, non tanto celato, di favorire eventualmente l’intervento della forza pubblica in caso di sommosse.
In ogni caso, Parigi era una città ricca di fermenti e novità, attenta alle innovazioni industriali (ricordiamo le edizioni delle Esposizioni universali del 1855, 1867,1878), pronta però all’occorrenza anche a divertirsi e vivere la bella vita, tra caffè, birrerie, brasserie, parchi, teatri, balli in maschera, feste, ecc.
Anche se il volto oscuro della città, quello dei poveri, dei vagabondi, delle prostitute non si può mai nascondere del tutto. Alcuni quartieri poi non rientrano nella smania di ristrutturazione del Barone Haussmann. E anche Manet lo sa, visto che talora di notte li frequenta.

Con Manet cambia lo sguardo dello spettatore
L’artista, d’altra parte, è testimone di tutta questa animazione che lo circonda, ma reagisce ad essa in modo piuttosto enigmatico. In sostanza, coglie l’impressione di frammenti della realtà, ma sembra che lo faccia quasi per caso e che tali pezzi, come quelli di un “puzzle” più complesso, restino isolati, senza che ad essi venga attribuito particolare significato.
Manet percepisce l’innovazione delle tecniche fotografiche. Cerca di approfittarne, imitandone l’oggettività ma al tempo stesso superandola. Dice bene il Direttore di Palazzo Reale, Domenico Piraina: “è l’insopprimibile impulso di catturare la poesia dell’attimo che passa, delle cose che mutano senza sosta.”
Per questo motivo, Manet ha un rapporto diverso con la luce; non “congelata” come nei fiamminghi, non “idealizzata” come in Bellini, non “viva ma immobile” come in Vermeer. La luce di Manet è luce spontanea, libera e la sua idea di bellezza non è quella assoluta ma quella “particolare” di un momento della vita colto nel suo divenire.
Gli inizi difficili di Manet
Non fu facile far capire ai contemporanei questa sua visione pittorica. Dal primo dipinto (“Déjeuner sur l’herbe”) giudicato inappropriato e scandaloso alla “Olympia” dove la donna si mostra imperturbabilmente nuda, con i sabot ai piedi.
Lui ci soffrì molto perché avrebbe voluto un posto nei Salons accademici, il riconoscimento più ambito per un esponente dell’alta borghesia come fu il pittore parigino.
Solo negli ultimi anni della sua vita (1881), con un ritardo che indubbiamente lo fece soffrire, l’avrebbero riabilitato consegnandoli una medaglia di seconda classe. Anche Degas che non gli fu proprio amico ebbe a dire dopo la sua scomparsa. “Era più grande di quanto pensassimo!”.
Chi fu davvero Manet?
Zola ci descrive così il suo viso: “Occhi stretti e profondi, bocca, caratteristica, sottile, mobile, dagli angoli un po’ beffardi. Il viso di una fine, intelligente irregolarità, annuncia l’agilità, l’audacia, il disprezzo per le banalità”. Abbiamo qualche ritratto dell’artista: quello realizzato da Fantin-Latour (non presente in mostra) e quello di Carolus-Duran.
Questo artista, bohemien, flâneur, dandy, un po’ eccentrico, rivoluzionario a modo suo, grande amico di poeti contemporanei maudit, come Baudelaire e Mallarmé, in fondo, restava un ricco borghese, in tuba e bastone, forse un po’ annoiato.

Eppure Manet fu un grande talento innovatore: ha rivoluzionato il linguaggio pittorico, fedele alla poetica dell’attimo, nella sua ricerca spasmodica di isolare sul nascere la natura della vita come pura esperienza fattuale. Così facendo ha saputo raccontare con i suoi colori accesi, i suoi neri spagnoleggianti, le pose austere distaccate dei suoi soggetti, l’epica della quotidianità, in una città in pieno fermento e sviluppo.

Manet e la Parigi moderna
Palazzo Reale – Milano
Dall’8 marzo al 2 luglio 2017
Produzione : Comune di Milano – Palazzo Reale – MondoMostre Skira
In collaborazione con il Musée d’Orsay e dell’Orangerie di Parigi
Info: www.palazzorealemilano.it – www.manetmilano.it

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