Gallarate – Incontriamo l’attrice Betty Colombo nello spazio culturale Civico 3. Qui inizia un viaggio nel suo teatro di narrazione. Ecco cosa ci ha detto.

Betty, quando ti sei avvicinata al teatro per la prima volta?

Il mio incontro con il teatro nasce quand’ero una bambina, perché facevo le imitazioni di tutto quello che vedevo in televisione. Stavo davanti allo specchio del bagno e poi andavo in un determinato punto della casa, che sembrava un teatro, e lì facevo le imitazioni, raccontavo le barzellette e recitavo le poesie. Inoltre d’estate, in vacanza a Milano Marittima nella pensione Miramare, organizzavo gli spettacoli serali: riunivo tutti i bambini e insieme, dondolandoci sull’altalena, raccontavamo le barzellette o oltre storie agli adulti e declamavamo poesie. Alla fine con le trenta lire “guadagnate”, compravamo un bel gelato.

Quindi era il mestiere dell’attrice in nuce…

Esattamente, anche se non ho fatto immediatamente l’attrice, perché in casa mi spingevano a fare la maestra, mestiere che ho fatto con gioia per vent’anni. Nel frattempo ho sposato un disegnatore tessile (Chicco Colombo N.d.R.) che tramite la scuola in cui insegnavo ha conosciuto un burattinaio. Un incontro che gli ha cambiato la vita, o meglio il mestiere. All’inizio ho fatto la burattinaia insieme a mio marito, anche realizzando spettacoli da sola perché lui mi ha sempre spinta a mettermi in gioco dandomi  il coraggio di dare corpo a quella che chiamo la mia «vena genetica». Infatti sono nipote e bisnipote di donne famose nel paese per essere delle grandi affabulatrici. La «genetica» mi ha portato al teatro di narrazione, quindi Roberto Anglisani, Marco Baliani per intenderci. All’interno di questo filone è nato il mio interesse verso la cultura popolare e in particolare mi sono occupata di quella del mio paese. Infatti ho dato voce ai mestieri – penso alla pesca – e ai modi di vivere di Cazzago Brabbia. Questo approccio mi ha portato a far parlare gli edifici, gli oggetti, le cose inanimate. Se li trattiamo come se fossero dei personaggi abbiamo un’attenzione diversa rispetto al fatto che siano dei ruderi o dei luoghi abbandonati. Il mio lavoro sulla cultura popolare ha avuto poi un impulso quando ho capito che le persone di cui raccontavo il lavoro, come i pescatori, hanno visto una rivalutazione del loro mestiere attraverso una narrazione che non interessava solo gli addetti ai lavori ma tutti gli altri. Alla fine il teatro serve perché le persone ci si riconoscano e perché il teatro in sé venga riconosciuto come patrimonio. Io sono una voce, un tramite, che è un lavoro di grande umiltà, perché significa mettersi al servizio di qualcuno o di qualcosa. Come diceva sempre Angelo Croci, nessuno dovrebbe morire senza avere qualcuno che racconta la sua storia e questo vale per tutti, non solo per i grandi personaggi storici come Garibaldi.

Come è nata allora l’idea di dare voce alla fabbrica Ilar di Ranco, al centro di un tuo spettacolo teatrale e di una performance pensata appositamente per Filosofarti? 

Nel 2017 una sindaca illuminata Monica Brovelli voleva che si parlasse della fabbrica di Ranco e ha chiamato un’attrice per farlo. Ovviamente non è un lavoro che si improvvisa, tutt’altro. Sono andata infatti a visitare la fabbrica ripetutamente, ho raccolto le notizie ufficiali pubblicate sui quotidiani dell’epoca.  Ho parlato anche con le ultime operaie che avevano lavorato alla Ilar e che la sera della prima erano lì, a novantotto anni l’una, novantaquattro l’altra. Tutta Ranco venne ad assistere allo spettacolo dedicato a quello che è stato il cuore economico del paese negli anni della seconda guerra mondiale fino alla fine degli anni Cinquanta del secolo scorso. La Ilar, aperta nel 1939, è stata attiva durante il conflitto mondiale, quando gli uomini erano in guerra  e le donne  dovevano lavorare per mantenere le famiglie. A ridosso del conflitto, infatti, un parroco lungimirante ha venduto il terreno su cui sarebbe sorta la fabbrica ad Adolfo Senn, imprenditore svizzero. In questo spettacolo la Ilar, questa fabbrica abbandonata, parla in prima persona, diventa un personaggio e racconta la sua storia. Così parla a tutti, di sé, della vecchiaia, di un paese intero.

Ha ragione Betty Colombo. È proprio questo il teatro: dare voce, rendere riconoscibili una storia, accendere un faro. Ci rende più consapevoli, più aperti verso gli altri. Del resto gli altri siamo noi.

Eleonora Manzo