Imboccando l'uscita 8 della tangenziale A 50, pulsante di traffico convulso e nevrotico, assediata da obbrobri architettonici abitativi e industriali che dal capoluogo lombardo incitano alla fuga, e seguendo le indicazioni per la Val Tidone, il paesaggio si allarga, il traffico si dirada sino ad aprirsi, in prossimità di Castel San Giovanni, a coltivazioni di mais alternate a risaie dove la tavolozza dei verdi vibra di armoniosi passaggi.

Siamo nel piacentino, la destinazione finale è Ziano dove ci attende a pranzo, prima dell'intervista, nella sua dimora studio, una porzione di castello del 1200, William Xerra.
Dopo aver appezzato la squisita ospitalità e la cucina della Signora Rosalba, ci spostiamo nello studio. Durante il percorso, Xerra mostra divertito un paesaggio, dai toni delicati, eseguito in anni adolescenziali.

"Nella "Verifica del miracolo" del '73 hai inserito nelle lapidi uno specchio in modo che i visitatori potessero riflettersi nelle opere, o meglio, essere nelle opere. Era un modo per suggerire al visitatore l'esigenza che per comprendere un'opera è necessario entrarvi dentro sino ad esserne parte integrante?"
"Prima rispondo sull'opera: erano lapidi dismesse dove il nome non corrispondeva al nome dello specchiato, quindi si verificava una prima emozione, alla quale seguiva l'aspetto concettuale entro il quale si poteva scorgere la profondità intellettuale dell'opera. Il fatto che il visitatore "entri" nell'opera, presuppone almeno una capacità di lettura visiva. Una volta, gli artisti erano in grado di usare il linguaggio del visivo, basti pensare ai dipinti sulle pareti delle chiese, o nei palazzi civili. Tuttavia, non ci si deve arrendere solo al bel colore o alla bella composizione; occorre aprirsi alle emozioni che si provano davanti ad un'opera e farle proprie per poi riporle nell'ambito dei ricordi e della memoria".

"In molte tue opere lavori per frammenti, in alcuni casi come ne "La malinconia" quasi negando la lettura del soggetto. Questo a dimostrare la difficoltà reale di riuscire a ricomporre per intero un concetto, un pensiero passato?"
"La malinconia è nata per una mia reale esigenza

complessiva tra mente e corpo. Avevo sentito la necessità attorno agli anni '80 di rivedermi, anche se mi ero già rivisto, come dicevo prima, con gli "Specchi" e "La Madonna delle rose", una piccola apparizione necessaria. Si tratta di apparizioni che dovrebbero essere quotidiane poiché ogni giorno una piccola apparizione dovremmo pur aspettarcela, anche solo per vedere il sole o ascoltare il fragore di un tuono. Ne "La malinconia" avevo la necessità di rivedere me stesso in maniera più antica, partendo da quando ero bambino, quando con la mia cassettina dei colori, andavo a copiare il vero, sentivo, già allora, la necessità di cogliere dalla natura qualcosa che mi stava sfuggendo".

"Scritti e parole, pensiamo a "Vive", compaiono in molte tue opere: quanto il pittore è compromesso con la parola?"
"Sono abbastanza compromesso, ma me ne sono accorto molto tardi, né quando facevo le lapidi, né quando ho messo "Niente" su San Damiano, né quando ho iniziato a dialogare con amici scrittori e poeti come Spatola, Costa, Balestrini, Emilio Villa, né quando ho scritto qualcosa di poetico che ho presto abbandonato, ma quando, prima della parola, mi ha interessato il vuoto presente nelle pareti dove appariva solo un frammento di immagine. Quello è il momento in cui ci si ferma ad osservare con molta attenzione e lo sguardo viene catturato dal vuoto, il vuoto diventa penetrante, quei vuoti mi hanno portato prima a dire "Vive", poi addirittura a scrivere "Vive". Poi, su altre opere, ho scritto appunti che non riguardavano necessariamente la parte dipinta, ma entravano come corpi aggiunti, come innesti, come gesto, poi sono arrivato su opere seguenti a darmi ironicamente il voto scrivendo "Bene", perché ironizzare su se stessi e sul proprio lavoro è una buona medicina. Sono poi arrivato a "Io mento": mento su qualsiasi cosa fatta dall'uomo, non dalla natura, e lo dico prima di tutto verso me stesso perché non è sempre facile essere sinceri fino in fondo".

"In alcune tue opere compaiono frammenti che richiamano alla classicità; è un modo per dire sia a chi crea sia a chi osserva che bisogna sempre fare i conti con la storia e con il passato per dare linfa a nuove creatività?"
"La mia sensibilità mi porta sempre, anche inconsciamente, a pensare alla storia dell'arte, ad una misura antica che avevano gli egiziani, gli etruschi, i greci. Abbiamo una cultura mediterranea legata all'antica Roma, chi lavora con i sensi, deve per forza di cose avere addosso un manto di storia".

"Tornando alla parola, o meglio alle parole, non credi che da qualche tempo il mondo dell'arte sia invaso da troppe parole dette e scritte e che a purificarsi più che gli artisti dovrebbero essere i critici?"
"Faccio sempre fatica a parlare male di qualcuno,

bisognerebbe parlare male della critica, del giornalismo degli artisti. Non c'è un'isola che si salva, l'isola critica non può salvarsi perché ha contribuito notevolmente ad abbassare il tono. Abbiamo assistito ad una critica che ha esaltato opere da quattro soldi… Anche fare certa arte è diventato facile, faccio un esempio: è sufficiente avere fra le mani un grissino, spezzarlo, buttare i due pezzi per terra e dire che fra le mani si ha polvere di pane, di conseguenza anche l'isola degli artisti non si salva".

"Una pubblicazione in nostro possesso dimostra che hai scritto anche poesie, a questo punto da Xerra pittore passiamo a Xerra poeta".
"No, no. La poesia ce l'ho dentro ma mi azzardo solo a scrivere qualcosa sui quadri. Ho scritto qualcosa ma poi mi sono ritirato in buon ardine", afferma, sorridendo.

"Dalle parole dette alle poche scritte ad un nome: Pierre Restany".

"La mia vita poggia su una lezione straordinaria che ho ricevuto da Pierre Restany, ascoltandolo sia quando parlava in pubblico, sia quando guardava e criticava o approvava le mie opere, ma soprattutto quando ero con lui nella confidenza più vera. Non l'ho mai considerato un critico d'arte, anche se come tale era straordinario, perché andava al di là della critica d'arte, non si adagiava solo sull'analisi critica, andava oltre, gli era sufficiente un particolare per costruire storie lontane. Era un grandissimo narratore, aveva una cultura straordinaria, se parlavi di archeologia era un archeologo, se parlavi di scienza era uno scienziato, se parlavi di letteratura era un letterato, aveva interessi multiformi. Ha avuto un ultimo periodo di vita non facile, gli ha dato molto fastidio che un italiano, Bonito Oliva con la Transavanguardia. avesse superato il Nouveau Réalisme".

Terminata la visita, William Xerra ci accompagna alla macchina parcheggiata a pochi passi da un bar. Conoscendo le reciproche preferenze riguardo gli aperitivi, ci è sufficiente uno sguardo complice per ritrovarci al bancone ad osservare l'inconfondibile rosso del Campari Soda scorrere fra i cubetti di ghiaccio che saturano i bicchieri.