Ho sempre pensato agli artisti come creature diverse, privilegiate. E’ straordinario vedere con quanta naturalezza riescano a sublimare ogni cosa, a decantare la bellezza con una manciata di note o di colori. Ma sono la sequenza e l’accostamento, il modo di accompagnarli e rappresentarli che fanno la differenza rendendo percettibile a tutti noi questa bellezza. Un dono il loro che condividono nell’arte attraverso la forza dello spirito. E’ la loro anima che fa la differenza. Si nota soprattutto nelle opere di Arte Sacra dove si avverte un legame speciale tra la Fede dell’artista e qualcosa o qualcuno di spieituale, divino. Del resto se così non fosse, non potrebbero esistere capolavori come, ad esempio, “La Pietà” di Michelangelo e “Il Cristo morto” di Mantegna che, per il loro significato, spesso capita di vedere come simboli del periodo pasquale. Due artisti con stili e linguaggi diversi, scultore uno pittore l’altro ma che in comune hanno una straordinaria capacità di esprimere con le loro opere il messaggio evangelico molto di più delle parole.
La prima” Pietà”, unica opera firmata da Michelangelo, si può ammirare nella Basilica di San Pietro. L’opera, in marmo, rappresenta Maria,seduta su una roccia del monte calvario con in grembo il corpo di Cristo deposto dalla croce. E’ morto ma come qualsiasi madre, ancora una volta lo vuole tenere tra le braccia. Immaginiamo la dimensione di un dolore così grande, straziante al quale è difficile, per un essere umano, rassegnarsi. Un dolore che entra nella pelle e percorre tutto il corpo congelando sentimenti e sensi, spegnendo tutto ciò che incontra. Indurisce anche i lineamenti, imbruttisce, invecchia. La Vergine Michelangelo non è così: è giovane e di una bellezza straordinaria. L’espressione del suo volto è quella della rassegnazione e accettazione: il momento è arrivato, ne era consapevole. Quella morte rappresenta solo la fine della vita terrena e l’inizio di qulcosa di più grande, di un mondo altro. E Michelangelo ha voluto sottolinearlo con questa grazia che la traspone dalla dimensione umana a quella divina. No, non sta piangendo. Il suo sguardo è abbassato ma non diretto al Figlio che sorregge quasi avvolgendolo tra le sue vesti. Cristo è abbandonato sulle sue gambe con il capo rivolto verso l’alto.
Un’opera, “La pietà” che rende Michelangelo il più straordinario artista di tutti i tempi. Aveva solo 24 anni quando la realizzò: geniale nella potenza espressiva, nella perfezione anatomica e unico capace di fondere nella materia una così intensa spiritualità.
Di tutt’altro impatto emotivo “Il Cristo morto” di Andrea Mantegna, (tela, cm 68×81, 1475 Milano -Pinacoteca di Brera) una delle opere più sconvolgenti e rivoluzionarie della storia dell’arte. Mentre Michelangelo scolpisce una bellezza dolorosa dove Madre e Figlio diventano tutt’uno e si fondono in una visione divina, nel dipinto di Mantegna la scena assume un’espressione più terrena, umana. Maria piange straziata dalla disperazione. Gesù morto è adagiato su una lastra di marmo rosso, i piedi e le mani mostrano le ferite dei chiodi. Sul lato sinistro, con la Madre, altre due figure, che gli storici edentificano con San Giovanni e la Maddalena, soffrono e vegliano il corpo. Qui Maria è molto più adulta rispetto a quella di Michelangelo. Il suo volto è solcato dalle rughe che segnano la disperazione. E’ una mamma, non v’è consolazione….E, mentre si asciuga le lacrime con un fazzoletto non distoglie lo sguardo dal figlio che l’artista ritrae in scorcio, accentuando il senso drammatico dell’essere umano colpito a morte. Mantegna coinvolge nella scena l’osservatore rendendolo partecipe della sofferenza.
Nella “Pietà”, Michelangelo scolpisce nel Cristo, con la morte anche la sua divinità. La mano di Maria aperta nel gesto di offertà è il dono all’umanità del figlio sacrifiacato per noi.
E. Farioli