C’è persino un pianoforte in fondo alla Grande Sala delle Grottesche. Mi avvicino con rispettosa cautela, ma il cartello è inequivocabile: “Questo strumento è stato restaurato. Si può suonare” Mi siedo sullo sgabello, premo timidamente qualche tasto, poi un accordo che diventa un arpeggio e subito gli altri visitatori si voltano rapiti. Il suono che sprigiona è davvero magico e ci riporta d’incanto ad un medioevo inatteso, molto più reale che immaginato.

Dominata dal profilo aguzzo del Monviso, la struttura del castello della Manta si presenta come un insieme di aggregazioni posteriori all’impianto originario del XII secolo. L’edificio, trasformato nel tempo in dimora signorile, iniziò ad assumere la fisionomia attuale solo all’inizio del Quattrocento, grazie all’opera della famiglia Saluzzo della Manta ed in particolare per volere di Valerano, figlio illegittimo del marchese Tommaso III di Saluzzo.

Colto e illuminato signore del Marchesato, Valerano trasformò il complesso in una fastosa corte, in concomitanza con l’istituzione del feudo della Manta. Fu lui a voler arricchire la Sala Baronale con i bellissimi affreschi che oggi costituiscono testimonianze veramente uniche della cultura cavalleresca del tempo.

Sulla parete sud troviamo il mito dell’Eterna Giovinezza, ispirato a un romanzo dell’antica tradizione francese medievale, il “Roman de Fauvel”. Una processione disordinata e vivace di personaggi di vario rango e età accorrono verso una fontana esagonale rappresentata al centro della parete: qui ognuno di loro si immerge per uscirne giovane e rigenerato, con la promessa dell’eternità.

Sul lato opposto della sala, vegliano eroi ed  eroine che rappresentano le virtù morali dell’epoca. E’ qui dipinta una sfilata di personaggi, illustrati secondo la tradizione iconografica classica, ebraica cristiana, abbigliati però con abiti medievali. Questo ciclo pittorico presenta una precisa corrispondenza letteraria con il romanzo “Le Chevalier Errant” composto proprio dal marchese di Saluzzo Tommaso III nel 1395, durante la sua prigionia a Torino dopo la sconfitta nella battaglia di Monasterolo.

Sono rappresentati, in ordine:  

EROI [FIGURE MASCHILI] – Ettore, Alessandro Magno, Giulio Cesare, Giosuè, Davide, Giuda Maccabeo, Re Artù, Carlo Magno, Goffredo di Buglione,

EROINE [FIGURE FEMMINILI] – Deifile, Sinope, Ippolita, Semiramide, Etiope, Lampeto, Tomiri, Teuca, Pentesilea.

Tra il 1416 e il 1426 un anonimo pittore ci regalò questa rara testimonianza di affreschi tardogotici profani, in un periodo nel quale la stragrande maggioranza dei dipinti pittoriche erano, come è noto, unicamente a soggetto sacro. Qui, a differenza delle altre pitture, vengono raccontate le passioni della società aristocratica del tempo, la cultura cavalleresca, i suoi miti, i suoi ideali e i suoi codici di comportamento.

Questa corrente, espressione del raffinato mondo delle corti francesi, è stata ampiamente narrata nella letteratura ma purtroppo non sono rimaste molte tracce pittoriche, oltre a quelle che stiamo ammirando.

L’affresco, da sempre, rappresenta il riflesso del proprio tempo ma sfida allo stesso momento la propria epoca, poiché  nasce per essere eterno. Gli uomini del ‘400 guardavano gli affreschi come specchiandosi dentro: i dipinti alle pareti dovevano essere più sontuosi del reale, erano la nobilitazione stessa della realtà.

Quest’opera dimostra il raffinato livello culturale delle corti piemontesi dell’epoca e soprattutto ci fa comprendere che erano inserite in un contesto artistico, quindi anche sociale, di respiro indubbiamente europeo. Il ciclo testimonia anche il coesistere, accanto alla pittura sacra, di un altro genere, forse “profano” ma più legato alla vita reale poiché narrava sogni, desideri, aspirazioni di una classe nobiliare che guardava come modello alle grandi corti, sicuramente ne conosceva le opere letterarie, musicali, pittoriche tanto da imitarle, per cercare di farle proprie. L’Europa del medioevo forse era molto più unita di come siamo portati ad immaginare.

Ivo Stelluti