Narrare per intero oltre due secoli di dominazione longobarda, anche limitandosi alla nostra regione, sarebbe davvero un’impresa titanica, che del resto non rientra tra gli scopi di questa rubrica. Punteremo pertanto la nostra attenzione, in questa come in altre future occasioni, sui cosiddetti “punti di svolta”, quelli che determinano, spesso in seguito a fatti all’apparenza di poco conto, veri e propri cambi di direzione, destinati a mutare in modo sostanziale il corso degli eventi.

Tremisse aureo di Desiderio coniato a Castelseprio

Ecco perché, con un ardito salto temporale, abbiamo deciso di spostarci dal primo re longobardo giunto in Italia, Alboino, all’ultimo, Desiderio.
Per non lasciare però del tutto al buio i duecento anni che li separano, un paio di nomi li tiriamo fuori lo stesso, anzi facciamo tre: Teodolinda, Rotari e Liutprando.
La prima, essendo pure lei di origini bavaresi, come lo sarà nel XIX secolo Elisabetta Amalia Eugenia di Wittelsbach, potremmo considerarla una Principessa Sissi ante litteram, tanto è forte l’amore che i sudditi le tributano. Su questo aspetto tuttavia, è giusto ribadirlo, non tutti concordano: Teodolinda preme infatti per un rapido passaggio alla fede cattolica da parte del suo popolo d’adozione; ma molti Longobardi restano ancora legati all’arianesimo, se non addirittura a precedenti riti pagani.
Re Rotari, invece, oltre che per aver esteso il suo dominio fino alla Liguria e aver sottratto altre importanti roccaforti all’Impero Romano d’Oriente, è ricordato per aver dato a vita in Europa al primo codice di leggi scritte da un popolo barbaro, che va appunto sotto il nome di “Editto di Rotari”. Data l’importanza di tale codice, gli dedicheremo, sempre all’interno della nostra rubrica, uno spazio apposito.

Tremisse aureo di Liutprando

Il terzo nome è quello di Liutprando, sotto il cui regno (712-744 d.C.) il dominio longobardo raggiunge la massima espansione. Questo sovrano è forse l’unico, tra tutti quelli che si sono succeduti sul trono, a esercitare un rigido controllo sui vari ducati, compresi quelli potentissimi di Spoleto e di Benevento, che fin dalla fondazione sono stati piuttosto restii ad accettare ordini da Pavia. Altro merito di Liutprando è quello di riformare in modo sostanziale l’esercito, lasciando definitivamente da parte l’albero genealogico e la discendenza dura e pura, per far spazio al censo: in pratica più soldi e proprietà possiedi, più sei tenuto a fornire un congruo contributo nell’armare te stesso e il tuo seguito. Così ritroviamo nobili decaduti di sangue longobardo retrocessi ad arco e frecce (all’epoca le armi più economiche) e italici, che nel frattempo hanno ricostruito le proprie fortune, in sella a scalpitanti destrieri, bardati di tutto punto.
Tale riforma tuttavia, per quanto valida nelle intenzioni e nella sua attuazione pratica, non basterà, trent’anni dopo, a salvare Desiderio dalla disfatta.
E siamo così giunti all’argomento principale di questa puntata di “Bella Storia”.
Quando, durante presentazioni o conferenze, mi chiedono quali siano state le ragioni della caduta dell’Impero Romano d’Occidente, di solito rispondo: «Mettetevi comodi, perché di ragioni ce ne sono circa un centinaio. Da dove volete che cominci?»
Quando però mi pongono la stessa domanda sulla fine del regno longobardo, ho molti meno dubbi e rispondo con una certa sicurezza che le ragioni sono tre: i Duchi, il Papato e i Franchi. Un’altra triade, insomma, che proviamo ad analizzare.
I duchi, perché in pratica quasi sempre dettano legge e si scelgono un re su misura, che non metta becco nei loro interessi. Il loro potere è smisurato, ma ancor più smisurata è la loro avidità, in nome della quale tessono intrighi e tradiscono con una facilità impressionante, che ai nostri occhi moderni riesce davvero difficile comprendere. Quando arrivano in Italia alcuni nobili longobardi non hanno ancora disfatto i bagagli, che già stanno pensando di passare al nemico. Come abbiamo detto, solo Liutprando riesce a tenerli a freno, mentre tutti gli altri sovrani li considerano come potenziali avversari, dai quali guardarsi costantemente le spalle, più che come alleati.

Scontro tra guerrieri longobardi (a sinistra) e (franchi a destra)

La seconda ragione della fine del potere longobardo in Italia, dicevamo, è costituita dal Papato. Quando la Chiesa di Roma si vede erodere, castello dopo castello, città dopo città, il proprio potere temporale, corre ai ripari e, non potendo più chiedere aiuto a Costantinopoli, che in quel momento ha ben altre minacce da affrontare, pensa bene di rivolgersi a un’altra stirpe germanica: i Franchi (terza ragione).
E sono proprio loro, i cuginastri d’Oltralpe, a infliggere il colpo fatale ai Longobardi. In quale modo, lo vediamo subito.
Il casus belli potrebbe essere, nel 751, la conquista di Ravenna da parte di re Astolfo.
Papa Stefano si rende conto che, se anche i Bizantini volessero mandargli soccorsi, non avrebbero più nemmeno un porto dove farli sbarcare e così chiede aiuto a Pipino il Breve, figlio di Carlo Martello, eroe della battaglia di Poitiers.
Pipino scende in Italia, infligge una prima sconfitta ad Astolfo, il quale promette di fare il bravo e di restituire i possedimenti sottratti alla Chiesa; ma poi non tiene fede alla promessa e il re franco è costretto a tornare nella Penisola e a impartirgli una seconda lezione.
A questo punto è chiaro a tutti che, nonostante la riforma di Liutprando, l’esercito franco è nettamente superiore a quello longobardo, è meglio organizzato, meglio armato e, non da ultimo, meglio comandato: non c’è sempre bisogno di “pregare” i vari capi e capetti di far bene la propria parte; la fanno e basta. Ci si rende in conto, insomma, che il proverbiale coraggio dei Longobardi, il loro ardore in battaglia, che nessuno ha mai messo in discussione, da solo non basta a vincere una guerra.
Forse se ne rende conto pure Desiderio, che sale al trono nel 757 d.C: e che, non avendo alcuna intenzione di restituire i possedimenti sottratti alla Chiesa, tenta la via diplomatica, dando due delle sue figlie in spose ai figli di Pipino, Carlo e Carlomanno. Il primo ripudierà la sua senza tanti complimenti; il secondo morirà in circostanze poco chiare, lasciando la propria vedova con due figli.
Proprio il diritto al trono di Francia da parte dei due pargoli, diverrà un ulteriore motivo di dissidio tra Desiderio e Carlo, ormai unico re dei Franchi, pure lui chiamato a difendere la Sacra Romana Chiesa, questa volta dalle suppliche di papa Adriano.
Mentre il re longobardo aspetta al varco delle Chiuse in Val di Susa l’attacco di Carlo, costui manda metà del proprio esercito, alla guida dello zio Bernardo, a passare le Alpi molto più a nord; lui stesso, alla guida dell’altra metà, aggira le fortificazioni attraverso un impervio sentiero tra i monti.
Desiderio è costretto a ripiegare e, secondo alcuni storici, affronta Carlo nei pressi del fiume Sesia, dove un primo scontro finisce in parità. Quel che è certo è che ora il sovrano franco può comunque disporre anche degli uomini dello zio, che nel frattempo lo hanno raggiunto, e spingere i Longobardi verso il Ticino.
Pure qui le versioni discordano.
Secondo alcuni, nei pressi di Ara, che da allora si sarebbe appunto chiamata Mortara, ha luogo l’ultima fatale sanguinosa battaglia, che costringe Desiderio e i superstiti a rifugiarsi a Pavia.
Secondo altri, invece, il re longobardo cerca subito scampo, senza neanche combattere, nella capitale, dove ordina al figlio di rifugiarsi a Verona. Adelchi, questo il suo nome, sentendo puzza dell’ennesimo tradimento da parte del duca a capo della città veneta, fugge dall’Italia per trovare asilo dai vecchi nemici bizantini, a Costantinopoli.
Siamo alla fine dell’estate del 774 d.C. e Pavia resisterà all’assedio fino all’inizio di quella dell’anno seguente, per consegnarsi al vincitore.
Re Desiderio e la regina Ansa finiranno i loro giorni chiusi in due diversi monasteri.
Le ultime concitate vicende del regno longobardo, come avrete capito, sono piene di buchi ancora da riempire, di “se”, di “forse”, di “siamo sicuri?”, e se queste incertezze costituiscono materia di indagine e di lavoro per gli storici, rappresentano altresì un terreno fertilissimo per un romanziere. Se dunque volete conoscere la mia personalissima, e in buona parte fantasiosa, ricostruzione degli eventi – vista sempre da quel particolare osservatorio storico che è Castelseprio – mi permetto di consigliarvi “Il segreto di Sibrium”.

Il segreto di Sibrium, romanzo storico di Alessandro Cuccuru – Aporema Edizioni

Vi lascio intanto con una citazione, tratta dalla “Storia d’Italia” di Indro Montanelli e Roberto Gervaso (© 1965-2011 RCS Libri S.p.A. Milano), che ho voluto inserire anche alla fine del mio romanzo.
“Così finì l’Italia longobarda, e nessuno può dire se fu, per il nostro Paese, una fortuna o una disgrazia. Alboino e i suoi successori erano stati degli scomodi padroni, più scomodi di Teodorico, finché erano rimasti dei barbari accampati su un territorio di conquista. Ma oramai si stavano assimilando all’Italia e avrebbero potuto trasformarla in una Nazione, come i Franchi stavano facendo in Francia.
Ma in Francia non c’era il Papa. In Italia sì.”

 

 

Bibliografia:
“Historia Langobardorum” di Paolo Diacono;
“Storia dei Longobardi” di Jörg Jarnut (Piccola Biblioteca Einaudi);
“I Longobardi – Dalle origini mitiche alla caduta del Regno d’Italia” di Nicola Bergamo (LEG edizioni);
“I Longobardi e la guerra” Autori Vari (Viella).