Museo MaxMuseo Max

Daverio: secondo appuntamento – Il secondo "venerdì di Daverio" volge lo sguardo all'architettura museale moderna di Chiasso, Bregenz, Helsinki e Berlino, puntando su costruzioni che mostrano un approccio all'architettura che va dal pratico al concettuale, e un uso della luce naturale in chiave strutturale.

Chiasso, Max Museo – Linee semplici, essenziali, pulite per un piccolo edificio bianco costruito con la funzione di dedicare uno spazio espositivo a un grande designer del Novecento, Max Hubert, autore di loghi di importanti aziende -per esempio Coin e Rinascente- e con lo scopo di rivalutare un'ex-zona industriale a lungo rimasta dismessa "Da terra di nessuno a polo culturale, è questo il Max Museo", spiega l'arch. Simona Motta, che continua dicendo che "questo piccolo parallelepipedo è un ricettacolo di luce sia di giorno, quando i raggi solari colpiscono l'esterno e l'interno della struttura, sia di notte, quando è invece la luce artificiale a diffondersi dall'intercapedine ricavata fra i muri esterni e il rivestimento perimetrale in vetro".

Il Museo di Liebiskind a BerlinoIl Museo di Liebiskind a Berlino

Il Kunsthaus di Bregenz e la pratica – È Peter Zumthor l'autore di questa grande casa per le esposizioni artistiche temporanee affacciata sul Lago di Costanza. Dalla pratica come falegname e dalla progettazione architettonica, supportata dal disegno preciso, nasce il museo moderno di Bregenz che, benché sviluppato in altezza, sfrutta perfettamente la luce naturale. L'arch. Sacchetti ha mostrato attraverso numerose immagini che l'illuminazione degli interni si deve ad ampie fessure aperte sia nelle parti superiori che lungo i muri portanti, dislocati in maniera sfalzata su ogni piano. L'interno del Kunsthaus, asettico, ma assolutamente luminoso, è stato costruito come se soffitto e pavimento fossero intercambiabili, con grande vantaggio per gli artisti che giocano volentieri su questa ambivalenza. Come la definisce Sacchetti "questa scatola interamente rivestita di vetro", lavorato nel minimo dettaglio, è completamente votata all'arte, le finestre dell'ultimo piano, infatti, non sono rivolte verso il lago, ma verso il centro della città.

Judisches MuseumJudisches Museum

Il Kiasma, a metà fra disegno architettonico e concetto – Spetta all'architetto Colombo illustrare uno degli ultimi esperimenti riusciti in fatto di museografia: il Kiasma di Helsinki. L'edificio nasce da un'idea che l'architetto newyorkese, Steven Holl, ha avuto guardando fuori dalla finestra dell'albergo in cui alloggiava: il museo doveva essere al centro di linee lungo le quali si sviluppa il centro culturale e politico della città finlandese. Da qui il nome Kiasma, la x greca, al centro della quale doveva sorgere il nuovo edificio. "Un museo che ha posto subito problemi di illuminazione", spiega la Colombo, "perché la luce al nord non è zenitale come nel sud Europa". Lo studio condotto da Holl sui materiali e sui volumi è stato fondamentale per capire come la luce potesse essere riflessa. Molti schizzi dettagliati hanno originato un luogo in cui le masse volumetriche si incrociano in modo molto scenografico e creano spazi, nei quali l'illuminazione cambia di piano in piano, perché le opere possano essere le vere protagoniste del museo e perché i visitatori possano farne esperienza seguendo percorsi che sono essi stessi a scegliere di volta in volta.

Lo Judisches Museum di Berlino: un museo di concetto – Concettuale per natura, Daniel Liebeskind – architetto di Ground Zero e figlio di genitori ebrei deportati – non ama usare matita e fogli, né costruire plastici come un tradizionale architetto. Nell'ideare il Museo dedicato alla Storia degli Ebrei a Berlino, infatti, è partito da quattro concetti, attraverso i quali ha creato un luogo in cui l'esperienza sensoriale del visitarore, provocata da volumi e luce particolari, è di grandissimo effetto", dichiara Sacchetti che in questo museo c'è stato. La stella di David, l'opera musicale "Moses und Aron" di Schönberg, i Gedenbücher (liste tedesche con i nomi degli ebrei) e la testimonianza di deportazione scritta da Walter Benjamin, "Einbahnstrasse", sono alla base di un museo, che più che essere un luogo dedicato alle muse è opera artistica esso stesso. Ne sono esempio perfetto l'effetto di straniamento sortito dall'altissima e fredda "Torre dell'olocausto" in cui la luce filtra flebile da un piccolo lucernario e quello di spaesamento provocato dal "Giardino dell'esilio" che è immerso nella luce naturale, ma con dei volumi che provocano nel visitatore perfetto disorientamento. Sono dunque i volumi, come i vuoti inaccessibili del museo, la linea spezzata lungo la quale è distribuito l'edificio, i muri esterni che rendono la struttura simile a un carro armato, la luce naturale, fioca o esageratamente forte, a permettere di fare una concreta esperienza di quella che fu la drammatica storia degli ebrei.