Pizzolantantonio funambulo assorto,
per tua natura procedi su quel filo sottile
che stacca o congiunge pittura e scultura
dal tuo capo di Leuca intercetti
nuvole cariche di rosse polveri del Sahara
o rinchiudi negli scrigni dei tuoi trapezi
ori riflessi da Bisanzio
o ritmando l'atavico gesto macini
sabbie cangianti lungo ioniche marine.
Ma se dai fondali udrai femmine
di guerrieri di Riace invocare la luce
aprirai loro il tuo spazio:
nasceranno nuove forme nel mito che resiste.

da le visioni di Sangregorio
XXI secolo

Marta e Giancarlo, maggio 2004Marta e Giancarlo, maggio 2004

Quando ho saputo dell'improvvisa scomparsa di Giancarlo, la prima cosa che ho fatto è stata una ricerca nella mia memoria, fatta di incontri amicizie e sodalizi comuni. Una ricerca che mi ha condotto a focalizzare il primo incontro con l'opera e il pensiero di Sangregorio.

Nei primissimi anni '80 quando giovanissimo studente d'Accademia a Lecce frequentavo lo studio dello scultore Umberto Palamà, spulciando tra i numerosissimi volumi della biblioteca del "Professore", mi capitò tra le mani, il settimo libro dell'enciclopedia di cultura moderna dedicato alla "Scultura italiana del dopoguerra" curato da Mario De Micheli (Schwarz editore). Lo storico e critico tra i più stimati e studiati, analizzava con puntuale e capillare ricerca le maggiori personalità del novecento italiano, tra queste appunto, Giancarlo Sangregorio.

L'incipit dello scritto datato Luglio 1958 recitava: "Compito dell'artista è solitamente esprimersi e parlare attraverso la propria opera, lasciando agli altri la libertà dell'interpretazione e la battaglia delle parole…". E ancora… "Di fronte a quella squallida e disgregante specializzazione che è divenuta oggi l'arte, sì, da poterne avere le più svariate e grottesche definizioni, il discorso di un artista, se di artista si vuol parlare, non può essere che semplice, come semplice e levigato e il gesto che attraverso i millenni ce ne ha portato la carica".

Marta e Rosanna in casa Sangregorio, 2004Marta e Rosanna in casa Sangregorio, 2004


Non avrei mai potuto immaginare che molti anni dopo con il mio trasferimento dalla Puglia nelle brumose terre di Lombardia avrei conosciuto l'autore di quello scritto, punto di riferimento del mio percorso artistico. L'attualità di quel testo, dopo tanti anni, è risuonata nella mia mente nell'apprendere la funesta notizia.
Era un uomo schietto, libero di dire ciò che pensava, di questo davvero non aveva nessun timore, tanto da farlo sembrare spesse volte rude, mai presenzialista anzi piuttosto schivo, alle inaugurazioni dello Spazio d'arte "Cesare da Sesto", quando a "guidarlo" magistralmente erano Gian Barbieri e Marisa Bausola, lo si vedeva per pochi minuti, (a volte con Enrico Baj di cui era amico) il tempo necessario per capire la qualità delle opere esposte… e poi via nella sua casa – studio sulle colline di Sesto.

Uno studio affollato da tante anime, molte africane, sotto forma di totem, divinità, maschere, idoli dal Mali alla Nuova Guinea, feticci Indiani, testimonianze di viaggi lontani, pronte a confermare quella innata curiosità di conoscere e come scrive lui stesso: "di ritrovatre l'uomo nella sua interezza, con tutta la coscienza e il coraggio della condizione umana". E' proprio quest'ultimo aspetto riecheggia in tutta la sua opera scultorea fino a diventarne fondamento, un'opera non solo di pietra e marmi ma di carta, vetri, feltro, acrilici, catrame, ferro, un'opera tanto antica ma molto contemporanea, perchè frutto di continua ricerca e sperimentazione, un'opera testimone della propria storia, che – come scriveva Raffaele De Grada – "senza troppo rumore, avvertendo in ogni momento quanto sia pesante il destino di un vero artista, ha goduto e sofferto il nostro periodo"