Giuseppe BortoluzziGiuseppe Bortoluzzi

Quando si parla del Portico, di quel Portico, libreria-galleria che nacque esattamente 60 anni fa, allo sbocco di via  Sacco, il pensiero va immediatamente ai nomi che in quegli anni sognavano e promettevano grandi cose, poi mantenute, nella cultura locale e nazionale: Piero Chiara, il compianto professore Ambrosoli, Dante Isella.

Motore primo dell'operazione fu invece Giuseppe Bortoluzzi. "Notaio un po' pazzo e stravagante – suo è l'autoritratto – che oltre a fare società e testamenti aveva il gusto di fare queste cose qui".
A distanza di sei decenni, è proprio con il suo fondatore, nonché finanziatore, che vogliamo ricordare quella felice esperienza culturale che ha segnato, anche lei in qualche modo, la ripartenza della città dopo la guerra.

Bortoluzzi, a chi venne l'idea del Portico?
"Eravamo in due, io e Dante Isella. Io identificai il posto. In via Sacco dove adesso c'è la Banca d'Italia c'era una casa molto bella, da anni abbattuta, con una guardiola accogliente al cui interno stava una signora che faceva paralumi. Un giorno sono entrato e ho chiesto: «Signora, lei ha intenzione di vendere paralumi per tutta la vita o ci starebbe a cedere il negozio?»"

Lo otteneste subito?
"No, no. La sua sua risposta fu. «Assolutamente no, andrò avanti con i miei paralumi». Dopo un paio di mesi sono tornato alla carica. «Signora, potremmo fare metà paralumi e metà libreria!». Ancora niente. Solo al terzo tentativo ha ceduto il locale. Io e il Dante abbiamo acquisito la licenza di librai e grazie all'allestimento dell'architetto Ravasi siamo riusciti a creare un ambiente accogliente".

In cosa si caratterizzava in particolare?
"Un allestimento gradevole, nessun particolarità. Di specifico c'erano questi plateau di vetro, in fondo, appesi al muro, sui quali potevano esporre le 7 o 8 opere, non di più, degli artisti che di volta in volta sceglievamo per le mostre che avrebbero specificato meglio la nostra attività di librai".

Chi finanziò l'impresa?
Bortoluzzi sorride, si concentra per focalizzare. "Penso di essere stato io, pur non avendo soldi. Avevo poco più di vent'anni, appena laureato in legge. L'ultimo mezzo milione della mia famiglia l'ho utilizzato per fare il Portico: per pagare l'allestimento, per comprare i libri e tutto quello che occorreva per far partire l'impresa".

Bortoluzzi e Isella librai…
"Ci sono librai che aspettano dietro il banco che il cliente chieda l'ultimo Moravia o l'ultimo Landolfi. Noi tre, io, il Dante e mia moglie Luciana cercavamo un approccio diverso con chi entrava, cercando di essere più dei consiglieri che dei venditori. Era comunque una libreria a tutti gli effetti, in qualche modo tradizionale. Il valore aggiunto era questo cosa molto simpatica delle esposizioni degli artisti".

Il primo fu Vittorio Tavernari
"Solo disegni, naturalmente, o tempere. Non c'era molto spazio e, come dicevo prima, le modalità espositive erano questi plateau appesi al muro".

Che ricordi ha di Tavernari, a quel tempo?
"Un grandissimo disegnatore, già a quell'epoca. Un lavoratore serissimo. Forse non aveva ancora la statura dell'intellettuale, benché già scrivesse sui giornali e partecipasse ai dibattiti culturali, ma quando si metteva a scolpire o a disegnare, artista di grandissima concentrazione".

Avevate una scuderia di artisti, scelti da voi?
Il notaio chiama in soccorso la moglie Luciana, vera e propria memoria archivistica delle imprese del marito. Il confronto tra i due è serrato, alla fine prevale, la memoria femminile. "Non direi. Era piuttosto un gruppo eterogeneo di artisti emergenti di area lombarda, non strettamente varesini. Ajmone,  Birolli, Broggini, ed altri".

Dalle cronache emerge anche il nome di Guttuso
"Una volta ci capitò in mano un blocco di disegni di Guttuso: era il Gott mitt uns, provenienza ignota, prezzo ignoto. Entrò un giorno un ingegnere, di nome Petracchi, che li volle comprare in blocco. Io e il Dante, inesperti di queste cose, perché non si vendeva al Portico, ci si siamo chiesti che prezzo avremmo dovuto fare e se non ricordo male, li vendemmo ad una cifra assolutamente da liquidazione".

La città come viveva questa esperienza?
"Le dico questo, una mia impressione. Varese ha vissuto un'epoca d'oro, che è quella successiva alla guerra. Aveva un respiro irrazionale. Si potevano fare queste cose e potevano stare in piedi anche perché c'era una clientela milanese, per esempio, facoltosa, che veniva ad acquistare libri. Poi veniva da noi il signor Cerati che adesso è presidente dell'Einaudi e allora era un semplice rappresentante viaggiatore di libri, simpaticissimo".

E Piero Chiara? Luigi Ambrosoli?
"Chiara non c'entrava direttamente con il Portico ma quello specifico ambiente che vi si era creato intorno certo lo comprendeva. Lo stesso si può dire del professor Ambrosoli. Il più metodico, il più ordinato tra tutti. Caratteristiche che sarebbero diventate utile pochi anni dopo quando ci siamo messi in testa di organizzare le grandi mostre di scultura all'aperto a Villa Mirabello. Ambrosoli era colui che a fronte dei nostri entusiasmi, ci riportava alla realtà".

Eravate gli unici in quel tempo a fare proposte di questo genere.
"Come librai c'era già il Pontiggia. Come galleristi, Grossetti era già tornato a Milano, Ghiggini c'era ma non ancora come luogo espositivo. In effetti mancavano le gallerie e i mercanti d'arte".

Esperienza breve ma intensa
"Non mi ricordo esattamente quando chiudemmo. Assumemmo anche una ragazza, per avere un aiuto. Però io ero quasi notaio, Isella quasi professore. Ad un certo punto non ce l'abbiamo fatta più e abbiamo mollato tutto. Andando più o meno in pari, senza perdere soldi, spartendoci i libri. Amichevolmente, come era giusto".