Ecco qui di seguito la seconda parte del racconto “Manuale d’Africa”, tratto dalla raccolta “Un albergo a mille stelle”, Aporema Edizioni.

 

Vilanculos, Mozambico, qualche giorno dopo

«Andiamo verso il centro del villaggio, cerchiamo qualcosa da mangiare: offro io!» Invito così uno dei “Chico” con l’intento di ringraziarlo della sua impagabile ospitalità per la notte passata nella sua modesta dimora. Mi fa capire però che questo è il centro del villaggio: quattro capanne, due palme, una signora all’angolo che vende benzina nelle taniche, il pozzo per l’acqua e di fronte, a pochi metri, la spiaggia più eterea, serena e appagante che io abbia mai visto. Mi siedo sulla sabbia al limitare del gigantesco arenile. Il tramonto se n’è andato da un pezzo. La notte in Africa è buia davvero: niente elettricità nelle case, niente illuminazione per le poche strade tracciate. Un altro Chico sbuca da un cespuglio, viene verso di me, insiste perché scatti una fotografia con lui. La vuole subito rivedere, poi mi guarda con la faccia delusa: «Non si vede niente!» dice sottovoce, quasi per non offendermi. Il flash della mia reflex non è scattato e la sua pelle d’ebano scuro non si distingue per nulla dallo sfondo di tenebra dell’immagine. Nella foto si scorge soltanto il mio viso pallido, con accanto le due palline bianche dei suoi occhi allegri. Poi tira fuori dalla tasca il suo I-Phone taroccato e dice: «Prova col mio, ha dieci megapixel!»

Joannesburg, Sudafrica, ultimo giorno di viaggio

Sono in ritardo come al solito. Metto la freccia e accosto la Jeep. Chiedo quale sia il percorso più veloce per il terminal ad un “Chico” che passa per la strada e lui subito sale in auto, fornendomi le indicazioni per non perdermi, in modo da arrivare in tempo per il volo. Non mi lascia solo finché non è proprio sicuro di avermi portato nel posto giusto: il parcheggio dell’autonoleggio del Terminal 1 dell’Aeroporto Intercontinentale di Johannesburg. Mi ha dedicato più di un’ora del suo tempo senza aspettarsi nulla in cambio. Poi mi ha sorriso un’ultima volta ricordandomi che «Per cambiare direzione non serve tornare indietro: a volte basta solo immaginare una strada nuova» e se ne è andato per la sua via. Questo intero continente ha una gran voglia di risollevarsi, di allinearsi, di imitarci.

Sarebbe splendido se riuscisse ad apprendere dall’occidente soltanto quel che c’è di positivo, lasciando a noi la corruzione, la plastica, l’arricchirsi a ogni costo, l’invidia, l’impazienza, i codici a barre, la vanità, il fast food e andate pure avanti voi con l’elenco. Ho bisogno di stare qui ancora un po’. Non mi è bastato attraversare milleduecento chilometri di foresta. Ma ho un aereo tra due ore che non credo abbia intenzione di aspettarmi.

Nomadismo esplorativo: ecco da cosa sono affetto. Il vero viaggio è ricerca pura, improvvisazione, lasciarsi travolgere da ciò che incontri, assorbire l’essenza della natura, farsi guidare soltanto dalla musica. Scriverò una “Balada de Amor ao Vento” dedicata a chi prende il largo con coraggio, senza sapere esattamente la distanza da percorrere, a chi trova i sentieri, ma non conosce la fatica di inseguire le tracce, a coloro che non ne hanno mai abbastanza di imparare, scoprire, navigare… Non ce la faccio a riprendere la strada di casa. Voglio respirare ancora un poco di quest’aria tersa, incontrare gente non ancora inquinata dall’ossessione del guadagno facile, dal flagello del turismo insostenibile e da tante altre amenità. Vorrei che restasse così, questa terra, per qualsiasi viaggiatore riesca ad arrivare fin qui: una lingua di sabbia che la marea tiene con sé qualche ora, per poi lasciarla riemergere, lentamente, in tutta la sua immacolata bellezza. Ed è ancora vita quella che sto assaporando tra le dita, è mare che si nutre di cielo, è tutto quello che non riuscivo nemmeno più a immaginare. È Africa. «Boa Viagem, irmão. Buon viaggio, Fratello» mi canta un ultimo Chico, dal vetro della sua postazione di controllo, consegnandomi il passaporto e salutandomi con la mano.

 

Ivo Stelluti,

Il Viaggiator Curioso