Sono in coda da più di mezz’ora. Un caldo irrespirabile asciuga l’aria centellinata da un unico spiffero di finestra se­miaperta, in questo stanzino dimenticato nel sottoscala di un ufficio comunale dell’opulento Varesotto. Non ce la faccio a soppor­tare i più di trenta aliti stipati qua dentro, in fila come profu­ghi. Eppure il passaporto mi serve ora: il mio aereo partirà solo tra pochi giorni.

Davanti a me staziona una signora piuttosto robusta, sui cin­quant’anni, elegantemente vestita, corredata di vistosi orecchini e collana di perle a 3 giri. Io continuo a sbuffa­re e ad agitarmi ma lei sembra non scomporsi minimamente, no­nostante la temperatura sia veramente insopportabile.
L’impiegato dell’ufficio, incurante della situazione, con­tinua ad emettere pratiche con l’indolenza implacabile di un bradipo a fine carriera.
Ad un certo punto, spazientito, approfitto di un attimo di distrazione della signora e compio un gesto ignobile: le passo davanti nella fila.
Faccio finta di niente e cerco di guardare da un’altra parte quando ad un tratto lei mi si rivolge con tono deciso: «Scu­si…» Penso subito «oh, no! Mi ha beccato: che figuraccia!» Cerco così di anticiparla: «scusi lei, mi dispiace ma, guardi, ho una fretta pazzesca. Non è possibile perdere tutto questo tempo…» e attacco con una serie di motivazioni più o meno plausibili ma lei subito mi interrompe: «no, no, non si pre­occupi vada pure, non c’è problema: le volevo solo porgere questo foglio che le è caduto. Ah, interessante… anch’io sono stata in Africa l’anno scorso.

Sa, un viaggio dal quale ho imparato molto: adesso, come vede, non mi scompongo più per nulla, non ho più la fretta che non fa guadagnare tempo, non serve a nulla questo correre che facciamo in continuazione…»

La sua voce si fa calma e rassicurante e comin­cia a narrarmi di quelle terre remote e del suo viaggio dal­le coste del Senegal al Gambia e poi giù verso la Guinea, fino ad arrivare in Nigeria attraverso foreste e deserti e fiumi.

Io mi perdo nei suoi racconti di tramonti sconfinati e sfu­mature irriproducibili, volti sinceri e libertà. Ammassi confusi di stelle, culture differenti che mettono in crisi gli equilibri, suoni, danze, parole, speranze. «E ho imparato che non c’è mai una sola risposta possibile a qualunque domanda. Guardi: è arrivato il suo turno». Mi risveglio davanti all’impiegato bradipo che all’improvviso mi porge il sospirato passaporto.
Inshallah, domani si parte. L’incanto può avere inizio.

Da questo istante mi precipiterà addosso una sequenza di straordinari istanti, voli, biglietti, nuvole, matite, zaini, isole, bus­sole, sabbia, sentieri, ma tutto assumerà un altro sapore perché ora ho capito che l’importante non è la distanza della mia meta ma il senso che saprò attribuire al mio viaggio.

A lungo camminerò sopra spiagge sterminate, tra sabbia e sale. La marea cancellerà le mie impronte, il vento dissolverà i miei passi ma ciò che avrò imparato resterà a lungo nella mia anima.

Ivo Stelluti, il Viaggiator Curioso,
Busto Arsizio, inizio estate 2005.