I teatrini di Luca Lischetti sono tornati. L'atmosfera circense, più apparentemente festosa, da Brass Bands dell'arte del pittore di Montonate è tornata a galleggiare, riemergendo dai fondi della coscienza dove l'artefice per anni l'aveva riposta; quasi pensando di averli in qualche modo esauriti. Invece da qualche mese, Lischetti li sta ritirando fuori uno per uno: oggetti, situazioni, espressività esasperate, ad uno ad uno ritornano a comporre la superficie del quadro, come un riflusso che non può arrestarsi. E da lontano guardano quegli antenati di 30, 20 anni fa, forse più urgenti, ma più acerbi, i teatrini di Hans e compagnia.

Lischetti, che senso ha questo ritorno al passato?
"Avevo voglia di riprendere quel tipo di figurazione, che è stata la mia prima vera esperienza pittorica. Una vicenda che mi riporta direttamente alle mie sensazioni vissute durante la mia infanzia".

Racconti.
"Da piccolo vivevo in simbiosi con un amico che abitava in un casa nella quale per arrivare alla cucina bisognava entrare dalla stalla. Da lì bisognava percorrere un lungo corridoio buio, a lato del quale era stata posizionata una lunga tenda. La mia sensazione in quell'ambiente era di paura. Paura delle forme che quella tenda scura assumeva. Dietro avevano ammassato di tutto e spesso qualcosa spuntava. Sedie sfondate, ruote di bicicletta, giocattoli. Una volta scostai la tenda e vidi una  stampella. Ai tempi mi fece davvero un'impressione forte che ancora ricordo.

Oggetti che poi ha trasferito direttamente sulla tela.
"E' lì che è nata l'idea fissa di una dimensione teatrale, ma non dal punto di vista di uno spettatore che guarda una scena. E' l'idea del dietro, del momento prima o dopo la recita, della confusione. E' una reminiscenza di quell'impressione primaria, che ripeto era fondamentalmente di paura".

Paura esorcizzata con la pittura?
"Non credo. Non lo so. Per esorcizzare credo occorra un ragionamento che forse non ho mai fatto. Semplicemente ho voluto rappresentare una certa idea che mi ero fatto, una specifica immagine del mondo fissata dentro di me".

Ai tempi dei primi teatrini, ci sono state in alcune letture critiche riferimenti anche letterari.
"Anche. Dal mio punto di vista, credo che alla base ci sia un aspetto kafkiano. La mia vita è kafkiana".

In che senso?

"Ho sempre avvertito la sensazione di qualcosa di incombente. Che succeda qualcosa contro cui io mi trovo impotente, da cui non riesco a fuggire nonostante abbia ragione. E' un'altra paura".

Tutto nasce dalla paura, quindi.
"No, non tutto, non credo".

Torniamo alla letteratura.
"Sicuramente Eliot. Non ho letto tutto di Eliot, ma quello che di lui amo, lo leggo e lo rileggo in continuazione. Come una sorta di breviario. Fu Roberto Sanesi, il critico e traduttore con cui sono stato in rapporto di amicizia per anni a farmelo scoprire. Cercando di farmelo capire ai tempi, sosteneva che tra la mia opera e la sua poesia, ci fossero affinità, similitudini, analogie. Io, ai tempi, forse bluffavo con lui. Non ero in grado di capire la poesia. Adesso che Roberto è morto vorrei tirarlo fuori dalla terra per dirgli che finalmente ho capito, che aveva ragione lui".

Poi cosa è successo?

"E' successo che volevo staccarmi da quel genere di lavoro. Innamorarmi di altri cose, di altre tecniche. Ma c'erano altre paure. La paura di non essere all'avanguardia, di non trovarmi nel mio tempo, all'altezza del mio tempo. Vedevo altri capaci di formulare in sintesi più efficaci quello che volevano dire. E' così che ho cominciato ad asciugare i miei lavori, a lavorare di più sulla materia, cercando dentro la matericità della superficie pittorica un sunto di quello che dicevo prima. Così nascono i miei gialli Africa, ad esempio".

E i tuoi rossi.
"I rossi, vengono da altre riflessioni. Riflessioni mie su Thomas Beckett, ad esempio, sulla sua sofferenza".

Quello 'rosso' è un lungo periodo della tua vita. Torniamo alla domanda di partenza. Qual è la molla che ti spinto all'indietro?

"Forse è un momento di rilassamento. E' come se mi fosse tornata l'esigenza di tornare a dipingere la figura umana, dopo averla a lungo scolpita, e quasi infierita".

Eppure di quei primi anni hai mantenuto  una visione piuttosto pessimistica?
"Intendi l'allusione alle corde, ai fili che reggono questi personaggi? E' vero, nel teatro e nel circo, alla fine sono tutti burattini, mai del tutto liberi e indipendenti. Così, anche nella vita".

Di nuovo cosa c'è?
"Un energia diversa, con un bagaglio maggiore, probabilmente un altro punto di vista. I miei personaggi di adesso sono meno spartani, meno naif ma pittoricamente migliori. Un tempo mi impressionavo io stesso dalla grado di emotività del mio lavoro, trascurando i particolari. Oggi ci faccio più attenzione. Oggi sono meno aggressivo".