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È incredibile quanto la percezione di sé in uno specifico istante possa essere influenzata da agenti esterni: questo è infatti il primo pensiero che balza alla mente quando il proprio orizzonte visivo viene fagocitato dall'opera P_L_ PVCHD_12_113, un'enorme struttura in alluminio composta da due lastroni curvi, ricoperti da un inedito materiale plastico color grafite chiamato pe-hd, grazie al quale la superficie ottiene un effetto assai simile a quello di una lavagna. L'evidenza epidermica di tale effetto ottico viene tuttavia immediatamente smentita al tatto, nel momento in cui la vellutata granulosità di questa "pancia" è indagata dai polpastrelli: un primo effetto di spaesamento colpisce così l'osservatore che si allontana istintivamente di qualche passo per poter meglio capacitarsi delle potenzialità espressive di questo corpo estraneo, incastonato all'interno degli spazi regolari e puliti della Galleria e appositamente creato per rivisitare il suo perimetro con inquietante sinuosità.

Dato l'ingombro, l'occhio è costretto ad una visione molto ravvicinata e estremamente immersiva all'interno dell'opera: la sezione in cui le due curve si uniscono funge da centro nevralgico, punto di fuga, identità semplice e pulita di un orizzonte infinito-indefinito capace di inghiottire nella propria ombra qualsiasi certezza derivataci dalla percezione oggettiva della realtà. Lo spaesamento è ora doppio, anche se (…per i più ottimisti e i meno timorosi!) può lasciar spazio ad una sensazione di naufragar dolce, in un certo senso ipnotico: a poco a poco, con la dovuta pazienza, questo minaccioso volume ci potrà diventare addirittura familiare, svelandoci anzi la sua intrinseca fragilità, suggerita dai piccoli ma incancellabili episodi che si depositano sulla superficie ogni qual volta essa viene anche solo sfiorata: graffi, ombre, sbiadimenti e segni costituiscono per Artan un sistema di eventi minimi e minuscole azioni, che liberano l'opera dalla propria solida imponenza e la ammantano di pure espressioni di poesia; al termine di questo iter tutto mentale non ci resterà che ammettere quanto la sua precarietà sia in fondo anche la nostra: come tutte le migliori prove d'artista, essa ha la capacità di stimolare le facoltà interpretative dello spettatore, a seconda del proprio

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stato d'animo, della propria sensibilità, fino a sfiorare le profondità dell'inconscio.

Secondo il parere del curatore Elena Forin, «Un orizzonte (titolo della mostra ma non dell'opera, dal nome davvero ai limiti dell'accessibile!) rappresenta l'esempio più completo delle direzioni interne alla ricerca dell'artista e della potenza – in termini di impatto ambientale e percettivo – che connota il suo lavoro. Questo progetto coniuga tutti gli elementi cruciali nella ricerca di Artan. La possibilità di uno sguardo che si estende fino ai limiti della visione, lo spazio completamente riscritto dall'opera, la presenza di un equilibrio a tratti – come in questo caso – stabile, in altri totalmente fragile e precario che si unisce a una particolare modalità di visione e a una analisi specifica dei materiali»; commenta infine lo stesso Artan: «questo lavoro non rappresenta l'orizzonte in sé… è un orizzonte, uno solo di infiniti orizzonti possibili. Non voglio simboleggiare l'orizzonte, ma racchiudere un orizzonte in una stanza».

Dal punto di vista progettuale l'opera è stata scelta tra una rosa di quattro potenziali installazioni site-specific, appositamente pensate dall'artista per significare gli spazi della Galleria: altrettanto interessanti (è possibile visionare i diversi progetti sia dal catalogo che dai disegni esposti), esse non possono non rimandare al monumentale minimalismo di Serra, al metaforico rapporto con l'ambiente di Staccioli, alla complessità materica di Xhixhia (suo conterraneo, tra l'altro!) e alle paradossali sculture "non-oggettuali" di Kapoor, che riflettono e assorbono calligraficamente il mondo esterno e che, come i lavori di Artan (Shalsi), divengono effettive e vive solo grazie alla nostra partecipazione.