L’uomo avrà quarant’anni, forse qualcuno in più. Il mio sguardo si ferma subito sulle sue mani segnate dagli acidi, dalla colla, dal lavoro pratico, concreto.
Al centro della stanza, sopra ad un grosso bancone, tra il disordine di barattoli, trapani da dentista e pennelli, incorniciato da una grande luce artificiale, c’è uno strano oggetto, evidentemente rinvenuto in una delle tombe qui intorno. Il restauratore non gli toglie gli occhi di dosso e anche quando siamo entrati nel laboratorio, ha cominciato a parlare senza nemmeno guardarci. E’ evidente che non è interessato a sapere chi siamo, da dove veniamo. Lui è lì per lavorare e visto che ci siamo anche noi, per raccontarci la SUA Storia.
Per prima cosa indica una data presunta del manufatto: VI secolo a.C.. Duemila-cinquecento-anni-fa, ripete più volte sillabando come per sottolineare l’importanza della collocazione storica.
Poi abbozza a narrare del suo lavoro, di come il reperto sia giunto fino ai giorni nostri e delle condizioni pessime in cui versava.
Comprendiamo che soltanto grazie ad un sapiente lavoro di recupero una testimonianza del genere può continuare il suo viaggio attraverso i secoli.
Ci tiene subito a precisare la differenza tra un restauratore e un archeologo: “non è certo l’architetto che mette in bolla i muri”, sentenzia secco.
Dopo aver illustrato molti dettagli della sepoltura in cui è stato rinvenuto, finalmente svela la funzione dell’oggetto.
“Probabilmente si tratta di un morso per cavalli, da cerimonia, non certamente da battaglia, è evidente dalla raffinatezza della fattura.
Forse era una sonagliera, ma sarebbe necessaria un’indagine ai raggi x per verificare se le sfere decorative di metallo contengono qualcosa che le avrebbe fatte tintinnare con il movimento del cavallo. E’ però un’analisi molto costosa e la sovraintendenza non ha i soldi per queste cose.” Spiega sconsolato. Mi viene voglia di chiedere il costo dell’operazione e di organizzare una delle mie proverbiali feste per raccogliere, almeno in parte, i fondi necessari. Ma mi trattengo: forse meglio lasciare al misterioso arnese il suo silente segreto.
Invece comincio a tempestarlo con una serie di domande incalzanti. Sono interessato soprattutto alle sostanze utilizzate e alle prove su frammenti microscopici che si devono eseguire prima di agire direttamente sul reperto. Lui risponde con il sommo piacere, che ben conosco, di chi fa il proprio mestiere con passione infinita ed insondabile. E’ una professione di tempi lentissimi, gesti rituali, pazienza e metodicità davvero ineguagliabili, quasi una vocazione. Confesso che lavoro in un laboratorio chimico, per giustificare almeno qualcuno dei miei insoliti quesiti.
Sono passati più di 40 minuti da quando noi, sparuti visitatori del museo Archeologico di Piombino, in un piovoso giovedì di agosto, siamo capitati nella sua stanza. E’ incredibile come lui non abbia mai interrotto la sua attività, continuando a far andare le mani mentre raccontava fluente.
Confida di essersi accorto che era quasi mezzogiorno dal fatto che aveva sentito il bisogno del secondo caffè. Mi offro io di portaglielo, pur di non lasciare che interrompa la sua preziosa attività.
Non sapeva che fuori stava piovendo, quindi non aveva nemmeno guardato dalla finestra da stamattina. E a pensare che, a pochi metri dal suo laboratorio, c’è il mare.
“Ecco perché c’è qualcuno nel museo, oggi.” Esclama senza scomporsi. “Quando è brutto tempo non si può andare in spiaggia e alcuni turisti si avventurano fin qui…”
Il nostro patrimonio archeologico è tenuto in vita a fatica da persone di questa qualità. Centinaia di manutentori dell’arte, manovali dell’incanto che lucidano, puliscono, tolgono impurità e fanno risplendere al mondo le testimonianze della Nostra Storia. Gente che non guarda nemmeno fuori dalla finestra. A loro dobbiamo la conservazione della più grande ricchezza artistica del mondo, della quale l’Italia va tanto fiera, e su cui basa una parte consistente della propria economia.
Poi scopriamo un mistero nel mistero: la sonagliera è decorata da una strana figura umana, sembra quasi un bambino oppure un extraterrestre. “In genere questi paramenti venivano ornati da immagini di animali” ci spiega il nostro esperto. “E’ l’unico esempio del genere. Ancora non si ha un’interpretazione di a questo dettaglio”.
Alla fine il restauratore mi fa un’unica, inaspettata domanda: mi chiede se voglio toccare il reperto. Così, per sentire la porosità del metallo restaurato, la nuova esistenza che ha saputo donargli, levando gli appesantimenti del tempo. E aggiunge, sottovoce, come si fa con i bimbi: “nel museo non si può nemmeno sfiorare gli oggetti esposti, ma qui facciamo un’eccezione…” Il materiale sembra veramente leggero al tatto. La parte già restaurata, priva delle incrostazioni, ha davvero un diverso respiro. Si vedono persino i fori sui quali era cucita la parte in cuoio, che doveva stare a contatto con la criniera dell’animale. Forse, un’analisi attenta, restituirà qualche frammento organico, il che vorrebbe dire, mezzi economici permettendo, una datazione certa. Continuiamo ad osservare con la lente d’ingrandimento e riusciamo a scorgere delle tracce di pigmenti. “Quindi era dipinto!” Esclamo sorpreso. “Tutto, nel mondo etrusco, era a colori vivaci!” rivela con saggezza il ricercatore.
“Prova a chiudere gli occhi tenendolo in mano e potrai sentire il frastuono delle parate di un tempo, i nitriti dei cavalli, il tintinnio delle loro variopinte bardature da cerimonia: potrai udire il Fragore della Storia.”
Il restauratore non si era nemmeno presentato. Quindi non sapremo mai il suo nome. Forse non potremo mai neppure conoscere il suono emesso da quello strano oggetto ma grazie alla sua passione, per un istante, ne abbiamo sognato e compreso la bellezza.

Il Viaggiator Curioso
Antica città di Populonia,Toscana
Giovedì 8 agosto 2019