Salvatore Quasimodo fu considerato dai letterati, dalla critica e dagli studiosi del suo tempo uno tra i poeti più antipatici e meno meritevoli. Perchè? ripercorriamo la sua vita.

E’ siciliano, nasce nel 1901 e vive gran parte della sua infanzia in Sicilia. Quando Salvatore ha otto anni il padre viene incaricato della riorganizzazione del traffico ferroviario nella stazione di Messina colpita da un disastroso terremoto: in quel periodo Salvatore e la sua famiglia vissero in un carro merci parcheggiato su un binario morto della stazione.
Quegli anni sono rimasti impressi nella memoria del poeta che li rievoca nella poesia Al Padre a cinquantanni dal disastroso terremoto.

Al padre
Dove sull’acque viola
era Messina, tra fili spezzati
e macerie tu vai lungo binari
e scambi col tuo berretto di gallo
isolano. Il terremoto ribolle
da due giorni, è dicembre d’uragani
e mare avvelenato. Le nostre notti cadono
nei carri merci e noi bestiame infantile
contiamo sogni polverosi con i morti
sfondati dai ferri, mordendo mandorle
e mele dissecate a ghirlanda. La scienza
del dolore mise verità e lame
nei giochi dei bassopiani di malaria
gialla e terzana gonfia di fango.
La tua pazienza
triste, delicata, ci rubò la paura,
fu lezione di giorni uniti alla morte
tradita, al vilipendio dei ladroni
presi fra i rottami e giustiziati al buio
dalla fucileria degli sbarchi, un conto
di numeri bassi che tornava esatto
concentrico, un bilancio di vita futura.
Il tuo berretto di sole andava su e giù
nel poco spazio che sempre ti hanno dato.
Anche a me misurarono ogni cosa,
e ho portato il tuo nome
un po’ più in là dell’odio e dell’invidia.
Quel rosso del tuo capo era una mitria,
una corona con le ali d’aquila.
E ora nell’aquila dei tuoi novant’anni
ho voluto parlare con te, coi tuoi segnali
di partenza colorati dalla lanterna
notturna, e qui da una ruota
imperfetta del mondo,
su una piena di muri serrati,
lontano dai gelsomini d’Arabia
dove ancora tu sei, per dirti
ciò che non potevo un tempo – difficile affinità
di pensieri – per dirti, e non ci ascoltano solo
cicale del biviere, agavi lentischi,
come il campiere dice al suo padrone:
“Baciamu li mani”. Questo, non altro.
Oscuramente forte è la vita.

In questa poesia oltre ad esaltare la bellezza della Sicilia Quasimodo ricorda il terremoto che ha causato a lui e a tanti come lui molto dolore. A 18 anni si trasferì a Roma, non viveva in buone condizioni economiche e, non potendo continuare gli studi da geometra, ripiegò su lavori più semplici. Ma la situazione cambiò in fretta e qui iniziò la sua antipatia da parte di critica, letterati e qualche lettore: in poco tempo Quasimodo divenne collaboratore delle maggiori riviste letterarie del ventennio, fu invitato a Firenze da Elio Vittorini dove conobbe Eugenio Montale, frequentò l’ambiente culturale di Firenze. Fu insegnante di italiano al Conservatorio di Milano e nel 1959 gli fu assegnato il Premio Nobel per la letteratura.
Salvatore Quasimodo ce l’aveva fatta senza che nessuno si rendesse conto di quello che stava succedendo, un mediocre geometra era riuscito a conoscere, frequentare, imparare dai migliori letterati del tempo, scriveva testi narrativi, traduceva romanzi americani e si dilettava come poeta, un poeta che forse non si era sudato tutto quello che era riuscito ad ottenere eppure arrivò li, al Premio Nobel, a fianco di personalità letterarie come Montale.

Rappresentante autorevole dell’ermetismo, cioè di una scuola poetica caratterizzata dalla concezione della poesia come linguaggio assoluto, puro, suggestivo, musicale. Gli Ermetici non avevano creato una vera e propria corrente letteraria, il loro era soprattutto un atteggiamento nei confronti della poesia: l’inclinazione era verso l’oscurità, il lettore faceva fatica ad interpretare un testo perchè le parole erano scelte non tanto perchè immediatamente recepibili ma anzi, per il loro carattere formale, per la struttura estetica che avevano, la musicalità nella pronuncia. L’ermetismo nasceva dalle avanguardie ma non si fermava li.

Ed è subito sera
Ognuno sta solo sul cuor della terra
trafitto da un raggio di sole:
ed è subito sera

A seguito dell’esperienza della guerra e del dopoguerra si orientò in una direzione diversa: i poeti dovevano saper dialogare con gli altri uomini ed esprimere i temi sociali. Questa poesia, inserita nella raccolta “Giorno dopo giorno” pubblicata nel 1947, riflette questo cambiamento.

Uomo del mio tempo

Sei ancora quello della pietra e della fionda
uomo del mio tempo. Eri nella carlinga
con le ali maligne. Le meridiane di morte.
– ti ho visto – dentro il carro di fuoco. Alle forche,
Alle ruote di tortura. T’ho visto: eri tu.
con la tua scienza esatta persuasa allo sterminio.
Senza amore, senza Cristo. Hai ucciso ancora,
come sempre, come uccisero i padri, come uccisero
gli animali che ti videro per la prima volta.
E questo sangue odora come nel giorno
quando il fratello disse all’altro fratello:
“Andiamo ai campi”. E quell’eco fredda, tenace,
è giunta fino a te, dentro la tua giornata.
dimenticate, o figli, le nuvole di sangue
salite dalla terra, dimenticate padri:
le loro tombe affondano nella cenere,
gli uccelli neri, il vento, coprono il loro cuore.

Nonostante l’antipatia che si è conquistato negli anni, grazie al suo comportamento esemplare di frequentazione di tutte le riviste letterarie importanti, alle amicizie e conoscenze che permisero ad un geometra di diventare un poeta riconosciuto e sicuramente accresciute dal Premio Nobel che lo metteva a confronto con Montale e poeti del suo calibro, riuscì alla fine a conquistare il pubblico avendo un grandissimo successo tra i lettori. Ecco due delle poesie più belle e conosciute di questo controverso poeta:

Ora che sale il giorno
Finita è la notte e la luna
si scioglie lenta nel sereno,
tramonta nei canali.
È così vivo settembre in questa terra
di pianura, i prati sono verdi
come nelle valli del sud a primavera.
Ho lasciato i compagni,
ho nascosto il cuore dentro le vecchi mura,
per restare solo a ricordarti.
Come sei più lontana della luna,
ora che sale il giorno
e sulle pietre bette il piede dei cavalli!

Imitazione della gioia
Dove gli alberi ancora
abbandonata più fanno la sera,
come indolente
è svanito l’ultimo tuo passo
che appare appena il fiore
sui tigli e insiste alla sua sorte.
Una ragione cerchi agli affetti,
provi il silenzio nella tua vita.
Altra ventura a me rivela
il tempo specchiato. Addolora
come la morte, bellezza ormai
in altri volti fulminea.
Perduto ho ogni cosa innocente,
anche in questa voce, superstite
a imitare la gioia.

Salvatore Quasimodo muore a Napoli, dove si era recato per ritirare un premio, in seguito ad un ictus. E’ stato uno scrittore, un poeta e un traduttore, non ha avuto una vita semplice, quella di scrivere per lui è stata una scelta che ha dovuto rincorrere ed ottenere, e che non ha mai accantonato nemmeno quando la sua vita aveva ben poco di poetico.
Può apparire antipatico e non piacerci in almeno una delle sue fasi poetiche ma quello che è certo è che ci ha lasciato tantissimo nei suoi scritti e per la maggior parte di chi è venuto dopo di lui è stato un grande, irraggiungibile, esempio da seguire.

Veronica Pagin