Busto Arsizio – È arrivato l’autunno con le sue piogge fradice e tenaci e lo stupendo “foliage” che indora campagne, boschi e colline prima di spegnersi nelle brume dell’inverno. In Canton Ticino, a poca distanza dalle nostre terre (ora vi si può andare comodamente anche col treno che parte da Malpensa e tocca Busto e Varese), invece che freddo e buio si sente aria di risveglio, almeno per chi è interessato alla cultura. Infatti in due paesi che si guardano in faccia, da una collina all’altra, si sono inaugurate tempo fa (ma si può vederle fino a tutto gennaio 2019) due mostre che non strillano nomi altisonanti da mettere subito in mobilitazione gli indomiti amanti dell’arte, ma che val la pena di visitare per conoscere un po’ di più questa benedetta arte che non è fatta solo di Caravaggio, Picasso e degli impressionisti.

A Rancate, accanto alla chiesa che veglia su un abitato lindo e silenzioso, si può approfondire “Il Rinascimento nelle terre ticinesi”, in un’angolazione diversa dalla mostra sullo stesso tema, molto bella e molto intensa, presentata nel 2010 alla Pinacoteca Cantonale Giovanni Züst. Allestita con raffinata semplicità da Mario Botta, la rassegna odierna è curata, come la precedente, da Giovanni Agosti e Jacopo Stoppa che per questa occasione hanno scelto di far tornare, sia pure solo per pochi mesi, alcune opere tra Quattro e Cinquecento nelle terre per le quali erano state create. Come sempre i due studiosi offrono una seria lezione di storia dell’arte sottoponendo ad un serrato vaglio critico queste testimonianze per guidarci fra le scelte e le richieste delle genti ticinesi: non dappoco visto che coinvolgevano tra gli altri Luini, il lodigiano Calisto Piazza e un misterioso, affascinante artista bramantiniano autore di una delicata “Adorazione dei Magi” ora al Rijksmuseum di Amsterdam. Per fare gli onori di casa sta bene poi il “focus” su Francesco De Tatti, pittore varesino certamente non eccelso, comunque interessante anche perché bravo a scegliere i rimandi giusti, da Martino Spanzotti ai lombardi del tempo di Leonardo e fin a Raffaello visto probabilmente solo attraverso le stampe. Di questo artista, si può dire riscoperto dalla studiosa di Varese Anna Maria Ferrari, si vedono a Rancate, oltre ad alcuni pannelli del polittico dipinto verso il 1525 per la chiesa di Santo Stefano di questa località, anche i grandi affreschi staccati da San Bernardino e ora sistemati in Santa Croce a Gazzada, tracce del suo operare sul territorio varesino fin giù a Busto dove sulla cupola del santuario di Santa Maria di Piazza affrescò figure di Profeti e Sibille che “esibiscono grugni, musi e teste torose” ravvisabili anche nelle tavole in mostra a Rancate.

Risaliti sulla collina di fronte eccoci al Museo d’Arte di Mendrisio sistemato molto bene nell’antico convento dei Serviti. Qui si fa la conoscenza di Max Beckmann, pittore, scultore e grafico nato a Lipsia nel 1884, costretto a traslocare in svariate città d’Europa (Francoforte, Berlino, Amsterdam, Parigi) sempre culturalmente vive, e con ultimo soggiorno, nel secondo dopoguerra, a New York, dove morì improvvisamente nel 1950. Lasciamo stare l’affermazione che lo vuole con Picasso e Matisse come “uno dei massimi maestri dell’arte moderna”. Più giusto sottolineare che Beckmann attraversò la storia della prima metà del secolo scorso scontandola duramente, anche proprio per il suo modo di rappresentarla sempre con tagliente veemenza. In un tempo in cui le avanguardie erano all’ordine del giorno, lui scelse di non parteciparvi pur interessandosi ad esse e di affrontare la realtà divenuta via via sempre più complessa, brutale e cruda. Niente di questi momenti pieni più di nefasti che di fasti risparmiò nelle sue rappresentazioni, arricchite spesso da colti e opportuni “miti ed enigmi”, come li chiama il curatore della rassegna Siegfried Gohr. Pagò pesantemente questo atteggiamento tanto che alcune sue opere furono esibite nella clamorosa mostra dell’“arte degenerata” aperta da Hitler nel 1937 a Monaco di Baviera. La durezza nel presentare il mondo squallido in cui gli toccava di vivere la si vede tanto nei dipinti segnati da un pesante “ductus” e da colori quasi sempre smorzati e scuri, quanto nella grafica, soprattutto nelle acqueforti e nei disegni dal segno diretto, tagliente, profondo. Scorrono davvero in questi fogli tutti i drammi, le contraddizioni, le ambiguità, le passioni che portarono nella prima metà del 1900 l’Europa dove si sa. Max Beckmann ha voluto e saputo denunciarle con tumultuosa inquietudine davvero gettando “sul tappeto del destino le carte ultimative”, secondo quanto asserito da Giovanni Testori in un’epica recensione della mostra dedicata all’artista presso la Haus der Künst di Monaco.

Giuseppe Pacciarotti