E' reduce da una mostra allestita da una galleria privata a Macerata. Pressoché sold out. Nel senso del venduto.
Il mese precedente, è accaduto lo stesso a Como. A settembre presente con uno stand allestitogli appositamente alla Fiera di Verona, uguale risultato. Dovunque vada, Antonio Pedretti è un successo. Una sorta di marchio di fabbrica. "Con una discreto stuolo di imitatori che vengono a farsi fotografare con me, poi mi mandano i propri cataloghi con le le foto con il "maestro Pedretti"", spiega quasi divertito.

L'enfant prodige di Bardello, classe 1950, ha ormai raggiunto la piena maturità in tutti i sensi: in quello della piena espressività, della padronanza stilistica, della conoscenza del proprio tema interiore. La maturità del rapporto del mondo, non ultimo col mercato, un mondo che ha attraversato non senza remore e spine e che adesso che vive con disincantata complicità. Nel suo soggiorno atelier sono esposti numerose tele a muro, a cavalletto, cataloghi in bella vista e foto, tante foto, molte con Vittorio Sgarbi, uno dei suoi acuti interpreti degli ultimi anni. Personaggi mediatici, a loro modo.

"Tu puoi startene li tranquillo – esordisce subito Pedretti – io devo fare qualcosa che stia dentro il mondo, un prodotto che entri nelle dinamiche della comunicazione, che debba essere visto, notato, assimilato. Sarà forse poco romantico…"
Poi però come in uno scatto d'orgoglio esibisce il registro delle presenze della mostra allestita a Palazzo Venezia nel 2005, curata proprio da Sgarbi e mostra lo sterminato numero di firme di presenza. "Questo è quello che alla fine interessa, il consenso della gente che viene alle mie mostre".

E' l'approdo di un cammino lungo, non ancora finito tuttavia, che lo ha visto muovere, dalla scuola d'arte, dall'Accademia di Brera, dai sussulti del Nouveau rèalisme – quando il Nostro inscatolava brandelli di paesaggio lacustre in pezzi di plastica – fino all'avvicinamento all'informale e al definitivo tuffo nella palude. Sempre però con l'idea timone che non si dovesse abbandonare il simulacro di paesaggio.

Come è stato il passaggio?

Un percorso lento, faticoso. Con cadute da spaccarsi le ginocchia. Chi mi stava vicino, chi seguiva il mio lavoro era spiazzato non capiva. Ma io sentivo, che l'elemento natura era parte di me e non potevo trascurarlo.

Antonio Pedretti nel suo atelierAntonio Pedretti nel suo atelier

Mentre parla, l'artista si aggira nel suo salotto atelier, sposta, riposiziona, le grandi o piccole tele addossate ai muri. I bianchi lombardi, le paludi, i canneti. Appaiono scontati ma non lo sono. Pedretti parla di Hartung, di Scanavino, di Morlotti, di Constable, dei numi tutelari che la critica gli ha sin qui sempre accostato.

Le pesa questa continua filiazione ai grandi paesaggisti lombardi del Novecento, dell'Ottocento, o addirittura del Seicento?

Non mi pesa affatto. Sarebbe come chiedermi se mi pesa essere figlio di mio padre. Anzi più riferimenti si possono riscontrare nel mio fare pittorico e più ricca mi appare la stessa pittura. Un critico vide in un mio dipinto qualcosa di Giorgione. Tutto questo mi lusinga.

Ma non sono riferimenti voluti o cercati?
Direi di no. Nelle ultime paludi, dove prevale un certo linearismo geometrico si può leggere un richiamo alla gestualità di Hartung o di Scanavino perchè gli ho letti, li conosco. In altre opere, c'è materia informale, in altre ancora si può aprire un dettaglio seicentesco, ma in ogni mio lavoro credo che emerga la mia felicità nel dipingere e se vado in quella o in quell'altra direzione è perchè l'immagine in quel momento di ha spinto lì senza nessun tipo di preparazione a priori.

C'è il Pedretti quasi sublime dei bianchi, turneriano, sabbioso, dei bianchi lombardi, o verdi profondi, dei neri cupi. Poi si apre all'improvviso il Pedretti cromaticamente acceso dei rossi, dei verdi quasi leziosi.
Quelli che ho chiamato i bianchi lombardi, sono forse più altri opere di sentimento. Se non li hai dentro, puoi essere il miglior pittore del mondo ma non riuscirai a farli, devi sentirli tuoi questi squarci di cielo, o di argine, o di campi nevosi. Quanto all'emersione del colore, devo dire che il viaggio fatto in Amazzonia intorno al 2000 mi ha fortemente colpito. Deve essere nata lì l'emozione per un impasto coloristico più acceso.

Il viaggio in Amazzonia: una tappa importante, nata quando Pedretti è già sulla cresta dell'onda, come artista di punta  di Telemarket. Ricominciamo da qui. Come ci si sente ad essere un artista che tira sul mercato?
Ci si sente bene. Ovviamente. Ho superato l'idea che vendere sia snob. E sono convinto che oggi come oggi il consenso all'artista, al valore dell'artista lo dia il mercato. Mi spiego: può essere triste, ma siamo in un'epoca in cui tutto è codificato. Il gesto di Duchamp o il vaso di fiori per noi hanno più segreti. Cosa fa la differenza? E' il consenso del pubblico, la diffusione, e in ultima analisi, il mercato. E' un discorso complesso, ma culturalmente, concettualmente importante al di là della pure vendita.

Lei ha sempre avuto consenso da parte dei collezionisti. Ma la sua scelta di affidarsi a Telemarket, tra i più grossi venditori nel settore, ha fatto discutere. Racconti come è nata questa esperienza
Allora lavoravo per la Galleria Forni di Bologna…

Che era comunque un'ottima galleria…
Certamente, ma in quel periodo non ero molto soddisfatto di come stessero andando le cose. La stessa galleria aveva qualche problema. Corbelli, patron di Telemarket, riusci ad acquisire tutto il deposito della galleria dove erano presenti anche una ventina di miei lavori in conto deposito. Non potè acquistarli insieme al resto. Si mise in testa allora di venire direttamente alla fonte e mi venne a trovare.

E cosa le propose?
Mi propose, per farla breve, lo stesso tipo di legame che proposero a suo tempo a Mario Schifano. Tre anni di contratto, rinnovabile in seguito. Tutto quello che avrei fatto in quel periodo sarebbe stato loro.

E lei accettò
Ci pensai qualche mese e alla fine decisi di accettare.

Con che spirito, con quali paure, o quali speranze?
La sera della prima presentazione ero terrorizzato. Capivo di aver fatto un salto in un altro mondo. Una specie di "patto col diavolo". Puoi fallire e se fallisci, è dura. Invece già la prima sera vendetti 25 opere. Una cosa eccezionale. Non vuol dire che sia un genio, o più bravo di altri, ma sono stato uno dei pittori più venduti da Telemarket. In questo senso sono stati 6 anni eccezionali.

Quanti opere ha venduto?
Credo tra le 1500 e le 2000

Tante o poche?
Pare che Schifano riuscisse a dipingerne 80 per notte…Nel mercato di oggi 1500, non sono poi così tante.

E cos'altro?
E' stato un periodo di straordinaria concentrazione sul lavoro e di grandissime opportunità. Già prima avevo lavorato con Marco Goldin e Enrico Crispolti, poi ho lavorato con Sgarbi, Bonito Oliva ed altri critici, ho ampliato la mia presenza ai musei. Prima mi conoscevano, dopo questi anni, di passaggi televisivi e non solo, mi conoscono davvero tutti. Serenamente credo che la mia scelta sia stata strategicamente giusta.

Ai tempi, tuttavia in molti storsero il naso per la sua scelta
Altrettanto serenamente posso assicurare che molti anche qui a Varese mi hanno confessato che avrebbero fatto la stessa cosa se avessero avuto l'occasione.

Adesso, sciolto il legame con Telemarket, che progetti ha?
Mi guardo intorno: sto facendo piccole mostre in giro per l'Italia, lavoro con gli amici di sempre, sto preparando una sorta di monografia che riprenda anche tutto il mio lavoro degli esordi che curerà Claudio Rizzi. Quanto a nuovi legami, le conseguenze della notorietà sono tali che le richieste non mi mancano.

E con Varese che rapporto ha?
Mah, non la frequento molto. Mi sembra che ci siano appassionati d'arte, ma manchi la critica militante o la critica in genere.
Quanto a me, devo ringraziarla. Mi ha sempre accettato: dai collezionisti, ai giornali, ai Musei civici che mi hanno organizzato ospitato la mostra Azzurro-Amazzonia. Dopo aver girato numerosi musei in Sud America mi sembrava giusto che terminasse qui.