Sembra di tornare nel milleduecento: è questa l’impressione data dalle icone di Giuliana Scandroglio, in mostra fino a domenica 16 giugno 2019, al Castello di Monteruzzo di Castiglione Olona. Una tecnica sacra e antica, che necessita di tempi di produzione lunghissimi – da tre settimane ad alcuni mesi – e preziosissima per l’oro che copre gran parte delle composizioni. L’artista, ceramista e pittrice nata a Cairate ci racconta come si è appassionata a questa particolarissima “maniera” descrivendoci nei dettagli la segreta procedura dietro ad ogni “scrittura”.

Così scrive Giuliana: «Se l’Icona è il luogo in cui il Mistero di Dio si rende presente, nessun particolare può essere trascurato, anzi, proprio la fedeltà alla tradizione e la cura nel procedimento tecnico della realizzazione dell’icona ne garantiscono il legame con il trascendente. L’icona è un riflesso del cosmo di cui ripropone la perfezione, un tempio alla cui costruzione concorre tutto il creato: l’uomo, gli animali, i vegetali, i minerali, con la terra, l’aria, l’acqua, il fuoco, in un equilibrio misterioso in cui tutto è trasformato e offerto affinchè il Bello possa esprimere il Vero.

La tavola
La scelta della tavola di legno va fatta con attenzione: si deve prediligere un legno compatto, poco resinoso e privo di nodi, ben stagionato, che offra un solido supporto alla pittura. Per irrobustire la tavola e limitarne le deformazioni nel tempo, talvolta si incastrano sul retro, delle traverse di legno più duro.

Si passa poi allo scavo della “culla” che simboleggia la profonda intimità con Dio del personaggio raffigurato e che rende l’icona simile alla “nicchia” di un santuario o una sorta di “reliquiario”. In seguito si praticano su tutta la tavola delle incisioni diagonali incrociate e si stende una mano abbondante di colla di coniglio ben calda. Questa operazione serve a preparare il legno ad accogliere la tela di lino che viene incollata successivamente, un accorgimento finalizzato a limitare il rischio di fessure sulla superficie pittorica dovute ai movimenti del legno. Ma c’è anche un preciso riferimento teologico: il ricordo dell’evento miracoloso che donò agli uomini la prima icona, la tela di lino con impresso il “Volto non dipinto da mano d’uomo” che Gesù stesso regalò agli ambasciatori del re Agbardi Edessa perchè venisse guarito dalla lebbra. Ogni icona infatti ha il suo fondamento in quel volto, il Volto di Dio fatto uomo.
Delicatissima è poi la preparazione dello strato bianco che costituisce la base della pittura (levkas) ottenuto con gesso di Bologna e colla di coniglio, fra loro miscelati secondo proporzione ben precise, e che va steso in più strati successivi fino ad ottenere una superficie omogenea e, una volta asciutta, perfettamente levigata. Ora la tavola è pronta. L’iconografo abbozza il disegno, a mano libera e servendosi di modelli derivati dalla tradizione (le Hermeneie greche o i podliniki russi).
Anche la doratura del fondo è una operazione assai complessa che richiede molta esperienza. Il fondo viene inizialmente ricoperto di un composto liquido di terra rossa e colla di coniglio (bolo) e, una volta asciutto, viene lucidato. Su questa superficie levigata si applicano dei sottilissimi fogli di oro che vengono lucidati e protetti con gommalacca. L’oro simboleggia la luce increata da Dio.

E’ giunto il momento più importante, che va accompagnato dalla preghiera e dalla meditazione sul mistero divino che l’icona renderà esclusivamente con pigmenti naturali per la maggior parte di origine minerale. I pigmenti più usati sono le ocre insieme ad altri minerali più brillanti quali il cinabro, il lapislazzuli, la malachite, l’ematite, ecc..Queste sostanze vanno ridotte in polvere finissima e “legate” con un collante, solitamente il tuorlo d’uovo.
Dopo la lunga preparazione dei colori, il pittore si accinge alla loro stesura impiegando pennelli morbidi ed elastici di scoiattolo o di martora. Per primi si stendono i colori di fondo nelle tonalità più scure e poi si passa alle “lumeggiature“, cioè si schiariscono aree sempre più limitate, in modo da creare il senso del volume, come se tutto fosse illuminato dall’interno. L’ultima operazione consiste nello scrivere il nome del personaggio raffigurato, mentre la verniciatura finale protegge il dipinto.
Tutto questo lavoro però non è sufficiente per una vera icona: senza la benedizione avremmo semplicemente un pezzo di legno dipinto. La benedizione della Chiesa dichiara che quanto è visibile nell’icona è realmente presente e fa di essa un veicolo efficace della grazia di Dio e presenza del suo volto. L’iconografo sa di avere solo prestato le mani al Signore affinché Egli si manifestasse, sa di aver compiuto un servizio, di aver risposto alla sua vocazione. Ecco perché non firma l’opera: tutto ciò che è detto non è “suo”, ma appartiene all’eterno mistero di Dio, che egli ha contribuito a rendere più vicino all’uomo.»

Informazioni:
E-mail: giuliana.scandroglio@tim.it
www.iconecristiane.it

Daniela Gulino