Luoghi come rifugi ai quali affidare un pensiero, un’intima idea, un frammento delle proprie emozioni. Spazi nei quali lasciarsi andare, liberarsi ed essere se stessi. Per un artista questi “luoghi” rappresentano l’identità, sono le proprie opere nelle quali le emozioni vengono elaborate e prendono vita. Così anche per Antonio Maria Pecchini, scultore e poeta.

Busto Arsizio – “La scultura è certamente l’elemento con cui io sono partito alla ricerca delle forme. – spiega l’artista. Anche la poesia è ricerca, in questo caso sulla giustezza della parola, dell’espressione. Entrambe le situazioni hanno in comune una “costruzione”. Nel caso della poesia si definisce attraverso il linguaggio, nella scultura sono le forme e gli elementi a dar vita all’opera”.
Quando crei, ti senti più poeta o più scultore?
“Credo non ci sia differenza tra poesia e scultura. Entrambe appartengono a una categoria altra, non ben definita … sono legate alla dimensione soggettiva di chi le realizza. Non c’e priorità tra una cosa e l’altra. Si costruisce per analogie, stanno insieme. Un aspetto è più giocato sulla definizione dei termini, l’altro è più focalizzato sulla funzione dell’immagine quindi la ricerca di materiali, elementi confacenti a quello che il titolo del lavoro ti suggerisce”.
L’ultima e recente personale “Abitare le stanze”, allestita a Villa Borletti di Origgio, è stata un grande successo di pubblico e di critica. Stai già lavorando su altri progetti per una prossima esposizione?
“Le mostre non si sa mai quando vanno in scena… soprattutto per chi, come me, non è legato alle gallerie. Capita che qualcuno ti inviti, ed allora esponi. Sto ultimando alcune opere, in cantiere da tempo, ma non saprei nemmeno dire quando potrebbero essere pronte. Si tratta sempre di installazioni ispirate alle condizioni dell’esistenza, alle dinamiche che intervengono nel quotidiano di ogni singola persona o della collettività, temi che perseguo da anni. Una si intitola “Anima vagula brandula”, una frase presa da un capitolo che compone “Memorie di Adriano”, della scrittrice Marguerite Yourcenar. E’ il soffio iniziale dell’opera, ne forma la struttura. In tal senso la storia e il mondo interiore dell’artista si compenetrano nelle emozioni che diventano sagome, volumi e forme. Come nell’addio descritto nel testo di Adriano, ho voluto rappresentare la scena del congedo con un’installazione che si compone di una serie di lumicini posizionati in gabbie appese al soffitto. Rappresentano lo spirito delle anime che occuperanno uno spazio in occasione di un allestimento. Si tratta di un lavoro complesso che richiede l’utilizzo di diversi materiali quali il ferro e l’alabastro e dove, per la prima volta, inserirò anche dei led per ottenere particolari giochi di luci. Un altro lavoro in esecuzione si ispira invece alle bandiere, che rappresenterò, alcune mosse dal vento altre inscatolate in strutture metalliche come fossero a riposo o meglio rimesse nei cassetti…”
A proposito di ispirazioni… Una società come la nostra in che modo può sollecitare la creatività un’artista
“In genere chi fa arte, vive un po’ ai margini e questa condizione permette di captare tutti quegli elementi che sfuggono alla maggior parte delle persone. L’artista cerca di tradurre quello che percepisce dalla storia in forme poetiche, senza fare del realismo pietistico. Ma l’arte ha anche un presupposto che è il tuo vissuto fatto di quotidianità, di naturalità di relazioni, di rapporti. Se si va ad indagare determinate situazioni è chiaro che non si può prescindere dalle condizioni sociali anche se oggi sono molto pesanti…”.