L'esterno della chiesaL'esterno della chiesa

Il tempio rifatto – Era un piccolo oratorio di una delle tante confraternite del tempo, forse tra le più seguite e prestigiose. E già luogo tra i più assiduamente frequentati per motivi di fede, confinante nella credenza in merito allo stretto rapporto tra la santità e il suo potere taumaturgico e protettivo verso uomini e animali. Ci volle la mano di Giuseppe Bernascone tra Cinque e Seicento, e poi ancor al'ingegno di alcune delle più esperte botteghe della città per trasformarlo, nel corso del Settecento, in uno dei luoghi non solo di culto e ma soprattutto di rango artistico più importanti della città. A distanza di poco più di 250 anni, la chiesa di Sant'Antonio alla Motta torna ad originaria configurazione: originaria bellezza, nei colori del ciclo, rifatta ex novo, per quel che concerne il resto: ricostruito il tetto, restaurate le campane, ammodernati gli impianti, recuperato il cotto lombardo del pavimento, riscaldato dal basso, ripristinata la facciata, ripulite le statue angolari di Dionigi Bussola, in cotto e rivestite già originariamente di patina in finto cotto.

Angela Baila, al centro dei presentiAngela Baila, al centro dei presenti

Il falo della rinascita – Un restauro durato due anni, concluso giusto in tempo per la tradizionale festa di metà gennaio, il cui beneaugurante falò quest'anno illuminerà il volto ripulito del piccolo, prezioso edificio nel cuore della città. Presentato da Monsignor Donnini, dall'architetto Baila, progettista e responsabile dei lavori, degli sponsor che hanno contribuito al progetto – Fondazione UBI, Fondazione Cariplo, Fondazione Comunitaria del Varesotto, Provincia di Varese e tutte le imprese coinvolte, a cominciare dallo Studio Arkè – il lavoro è costato circa 1 milione e 200 mila euro.

I particolari nascosti – In un angolo due giovani restauratrici stanno predisponendo gli ultimi ritocchi. Le luci, forse, vanno lievemente ritarate soprattutto sulle sculture ai quattro angoli dell'aula; l'altare, secondo Monsignor Donnini, avrà bisogno di essere messo in risalto, ma l'esito che si presenta agli occhi è quello di un compito all'altezza. Si leggono, ora, per dire, perfino le quadrettature che la bottega del virtuoso Giuseppe Baroffio stese sulla calce fresca per riportare il modello dal foglio alla superficie muraria. Una superficie immensa, 1400 metri quadrati di pittura, su cui il restauratore è intervenuto con tecniche tradizionali, ma anche con il laser, provato, racconta Fulvio Baratelli dello Studio Arkè, su un piccolo frammento di colore staccatosi

La statua in cotto di San MacarioLa statua in cotto di San Macario

dal muro e rimasto in bilico su una ragnatela. Tempera a calce, sentenziano i tecnici: più fragile e meno resistente di un vero affresco. Un vantaggio per le possibilità esecutive di allora, un handicap per i restauratori di oggi.

I dubbi – Perché il restauro, già addidato alcuni mesi fa in un convegno per addetti ai lavori come esemplare, è stato un lungo viaggio nella storia della chiesa: storia documentaria e nelle sue viscere. Ne sono emersi particolari importanti: Baroffio sottoscrisse il contratto per la decorazione nel 1748, il suo impegno avrebbe dovuto durare fino al 1752. In realtà i lavori di decorazione terminarono solo nel 1756, quattro anni dopo. Perché? Gli studiosi stanno cercando di capirlo, così come si stanno aprendo dei dubbi sulla identità del pittore di figure. Diversità nelle due grandi rappresentazioni nella volta dell'aula e di quella della navata, stanno mettendo in forse la mano univoca di Giovan Battista Ronchelli, erede di Magatti nella commissione pubbliche e private della città, forse alternato ad un'altra figura di bottega. Dubbi che appassionano lo storico, ma che nulla tolgono al pregio di un ciclo, tardivo quanto si vuole, ma oggi ancora più spettacolare a vedersi.