Eranotutti1.jpgIl teatro civile e la civiltà del teatro parlano all’uomo senza retorica. “Erano tutti miei figli” possiede la prodigiosa struttura dei capolavori in cui allegoria e concretezza convivono. Il dramma privato si fa qui paradigma dei traumi e delle contraddizioni che, ieri come oggi, travagliano la società postindustriale.

 

La corrispondenza biunivoca tra microcosmo e macrocosmo innerva anche la nostra rappresentazione. Una casa altoborghese della provincia americana è specchio universale del marcio che, sotto ogni latitudine, antepone il denaro all’etica. L’impianto scenico trasporta lo spettatore in un contesto tanto spazioso quanto asfittico. L’estiva ambientazione in esterni, prevista dalla sceneggiatura originale, diventa piuttosto una serra-rifugio, trasparente isolamento di anime tra i suoi fragili vetri, su cui si addensano i tossici vapori di verità malcelate, ansie manifeste, colpe troppo a lungo sottaciute.

 

Un tono esteriore da “conversazione galante” rende ancora più inquietanti i rapporti tra i personaggi, schiacciati dalle ragioni del business, modello necessario e fondante della società capitalistica. Joe Keller è un milionario senza scrupoli, che vuole far credere, persino a se stesso, di avere agito per il bene della sua famiglia. Spietata è invece la logica su cui si fonda la ricchezza che ha accumulato, frutto di ciniche equazioni tra guadagno e disonestà, tradimento e menzogna, frode e illegalità. Il magnate corrotto ha fatto tutto da solo, mentre i famigliari hanno goduto degli agi, ma a quale prezzo!

 

Eranotutti2.jpgAffascina il passaggio impercettibile in cui la sinfonia di affetti si tinge di tragico e il dovizioso accumulo di capitale si rivela fatale, è esso stesso fato che muove il mondo. È allora che l’esistenzialismo di marca ibseniana prende corpo. Impossibile alla lunga non farsi domande. Impossibile per il figlio aviatore disperso in guerra e per quello reduce. Impossibile per la giovane che è stata fidanzata al primo, ed ora lo è dell’altro fratello. Impossibile per la moglie-madre che si rifugia nell’illusione.

 

Ma le coscienze che urlano, dentro e fuori ognuno di loro, sono voci nel deserto: fanno male ma non paura. Non minano il consenso della massa, condizionata alla ricerca acritica di un benessere solo economico, inconsapevole di conseguenze fors’anche funeste. Una per tutte, emblematicamente, Miller inquadra nel mirino la lobby delle armi. Quella stessa che, lo vediamo, continua a mietere vittime, non solo in quanto postula belligeranza, ma per la diffusa spregiudicatezza troppo spesso impiegata nel celare difetti di produzione, più insidiosi del fuoco nemico.

 

Più in generale, in un’ottica industriale deteriore, è questo un delitto ciclico che si perpetua con diabolica impunità in tutti i settori merceologici. Difficile da individuare, quantificare, punire. A temerlo meno è proprio chi lo compie, preoccupato solo di farla franca e restare sul mercato: statisticamente ed egoisticamente sarà sempre l’altro a subire il danno. E chi invece paga sulla propria pelle il prezzo del dolo commesso? Miller descrive la ricaduta personale, il boomerang che si abbatte sul colpevole. E lo fa all’indomani dell’atto più truce, la guerra. Denunciando la connivenza delittuosa che troppo spesso regola il profitto individuale come, a livelli ben più alti, l’espansione economica e militare, la potenza degli Stati.

 

Rivelando il pactum sceleris, imposto dall’arricchimento a tutti i costi. Costringendo a vederlo come responsabilità di cui la comunità, tutta la comunità, compresa quella odierna, è investita.

I protagonisti interpretano: “Erano tutti miei figli”, un testo di Arthur Miller che fu, insieme a Tennesse Williams, tra i più importanti autori americani del secondo dopoguerra