Scontro di civiltà o incontro di culture? Opportunità di sviluppo o crisi di identità?

Questi, ancora oggi, sono gli interrogativi che animano il dibattito quotidiano di fronte ai complessi problemi dell’immigrazione e del rapporto tra culture, etnie e religioni diverse.

 

La Mostra “Longobardi. Un popolo che cambia la storia” aperta al Castello Visconteo di Pavia dal settembre al 3 dicembre consente di avvicinarci a una pagina della nostra storia spesso poco conosciuta, riscoprendo i segreti di questo popolo, chiamato “uomini dalle lunghe barbe”, che sbaglieremmo a definire “barbari”.

Una sinergia virtuosa tra tre Musei

La Mostra, realizzata con il contributo della Regione Lombardia e il sostegno di Ubi Banca, nasce come collaborazione tra tre Musei, quelli civici di Pavia, il Museo archeologico Nazionale di Napoli (direttore Paolo Giuglierini) – che aprirà la mostra il 15 dicembre prossimo – e il Museo Statale Ermitage (Yuri Piotrowsky, Vice capo Dipartimento), che la inaugurerà nella primavera del 2018.

Questa collaborazione inedita tra Musei ha un senso. Forse non tutti sanno che i Longobardi si spinsero infatti anche in Campania lasciando tracce importanti specie nelle città di Capua e Benevento, le capitali della cosiddetta “Longobardia Minor”.

La collaborazione con l’Ermitage di San Pietroburgo è inoltre l’opportunità per far conoscere anche in Russia questo popolo, la sua eredità e la sua funzione di ponte tra Mediterraneo e Nord Europa.

Qualche dato sulla Mostra

Sono 300 le opere esposte, provenienti da oltre 80 Musei prestatori. I siti longobardi rappresentati sono 32, 58 i corredi funebri e 17 i video e le istallazioni multimediali predisposte.

Più di 50 studiosi hanno svolto ricerche su questo tema. Negli ultimi 15 anni si sono avuti ritrovamenti eccezionali, come quello di Sant’Albano Stura,  con oltre 800 tombe riportate alla luce, e ne è scaturito un corposo volume, edito da Skira editore, con i contributi dei curatori della Mostra, Gian Pietro Brogiolo, Federico Marazzi con la Direzione scientifica di Susanna Zatti.

Piccola notazione storica

Pavia,  fu capitale del regno dei Longobardi per due secoli, dopo che il re Alboino la espugnò nel 572 e prima che Carlo Magno nel 774 la riconquistasse.

Duecento anni di cui restano le testimonianze documentarie di Paolo Diacono, e le numerose tradizioni, nelle leggende locali, nei toponimi della zona ma di cui, sfortunatamente, non esistono reperti monumentali importanti, distrutti, dopo lo sviluppo del Romanico, ma anche “sommersi” o inglobati da nuove architetture, come le famose cripte di Pavia. Ve ne sono tre visitabili in città.

Chi erano i Longobardi?

Oggi, dopo nuove campagne di scavo e ricerche, è possibile riavvicinare questo periodo storico, riscoprendo il ruolo dei Longobardi visto non solo come un popolo “invasore e barbaro” ma anche come un’etnia capace di una cultura autonoma, in grado di contrastare le spinte di altri popoli come i Franchi e, in parte, gli arabi e mediare tra la civiltà di Bisanzio, la Chiesa con l’obiettivo, peraltro mancato, dell’unità politica dell’Italia, fungendo da ruolo di collegamento tra l’Europa occidentale e le culture mediterranee.

Certamente i Longobardi erano un popolo guerriero e pagano, sempre in bilico tra fede ariana e cristianesimo, ma con riti, sistemi sociali, architettura, artigianato, in grado di influenzare attraverso una nuova iconografia figurativa anche la miniatura, l’oreficeria, la monetazione successive.

Il percorso della mostra

La Mostra è suddivisa in 8 sezioni. La prima riguarda la guerra greco gotica con l’esposizione dei teschi delle tombe di Collegno, deformati secondo l’usanza barbara, dovuta alla stretta fasciatura  fatta ai neonati, e i reliquiari, tra cui quelli preziosi provenienti dal Museo di Susa.

Nella seconda sezione dedicata alla sepoltura e al rapporto con l’Aldilà, spiccano le armi, i decori animalistici e il famoso sacrificio del cavallo e dei levrieri. Nella terza sezione dedicata all’economia vengono esposti soprattutto reperti di monete, in oro, argento e rame, che non erano considerate solo merce di scambio ma simbolo di ricchezza vero e proprio. La quarta sezione espone il famoso editto di Rotari, il primo codice scritto di leggi desunte dalla tradizione orale longobarda.

La scrittura e le epigrafi sono l’oggetto della quinta sezione, arricchite da elementi decorativi bidimensionali, volute vegetali, nastri incrociati, e i plutei, cioè le lastre tombali, con iscrizioni commemorative. Il passaggio dal papiro alla pergamena è invece raccontato nella sezione sesta dove sono esposti i codici manoscritti con l’invenzione della scrittura beneventana, molto minuta e spigolosa. Nella settima sezione vengono esposti arredi liturgici, epigrafi, gioielli, ritrovati nella Longobardia meridionale, cioè a Capua, Salerno e Benevento. L’ultima sezione è dedicata alla terra dei Monasteri, Montecassino, San Vincenzo al Volturno e Santa Sofia di Benevento, luoghi di produzione artistica di altissimo livello.

L’allestimento della Mostra

Un accenno particolare merita l’allestimento particolarmente originale della mostra. E’ stato realizzato da Angelo Figus, creativo e designer, con una esuberante esposizione di colori. Nei materiali tessili (un tappeto di oltre 1500 mq) e in altri spunti coloristici che guidano il visitatore nelle diverse sezioni: la  scelta cromatica ben si addice a un popolo che prediligeva le tinte forti (il rosso prima di tutto), contrastanti tra loro, simili al loro carattere duro e deciso, espressione della energia creatrice e generatrice che li animava.

La mostra, che, come abbiamo visto, nasce da una triangolazione virtuosa tra tre istituzioni importanti, offre numerosi spunti di interesse. Proprio per la ricchezza dei contenuti non è una mostra “mordi e fuggi” ma richiede attenzione, anche se sono molti gli strumenti messi a disposizione dei visitatori, piccoli e grandi, per favorire la comprensione di un popolo e di un’epoca complessa come quella altomedioevale.

Ugo Perugini