Parte di un corredo femminile longobardo, esposto al Museo Archeologico di Cividale del Friuli

Anno 1951. Mio padre è a Roma a fare il militare e riceve una lettera da mia madre, nella quale lo informa che ha cominciato a preparare la schirpa. Lui le risponde ringraziandola del pensiero, ma spiegandole che la sciarpa i soldati non la possono indossare, mai, neppure quando montano di guardia o in libera uscita.

Mio padre è emigrato a Busto Arsizio dalla Sardegna già da qualche anno e in poco tempo, da ragazzo sveglio qual è, ha imparato il dialetto locale. Quella parola però non l’ha mai sentita prima; è convinto che mia madre si sia sbagliata, o abbia scritto male: schirpa al posto di sciarpa. Non sa che la schirpa, in dialetto, è il corredo nuziale e men che meno può sapere che quella parola derivi direttamente da una lingua ormai scomparsa, quella dei Longobardi. L’etimologia, del resto, è ignota anche a mia madre, che pure è bustocca da generazioni.
Facciamo un salto in avanti di qualche anno.

Parte di un corredo femminile longobardo, esposto al Museo Archeologico di Cividale del Friuli – particolare

Schirpa o sciarpa, il fidanzamento va a buon fine e, a qualche mese di distanza da mio fratello, nasco io. Come tutti i bambini, sono spesso assalito dall’irrefrenabile istinto di fare il buffone. Questo accade soprattutto quando, in assenza dei genitori, vengo affidato alle cure di qualche anziano parente, nel caso specifico la mia prozia, Angioletta, classe 1910. Vedendomi cantare, saltare e ballare in giro come un giovane giullare di corte, la prozia mi apostrofa, chiamandomi «Lifrocu d’un lifrocu!»
Al ritorno a casa di mia madre, chiedo lumi su quello strano appellativo. Lei mi spiega che significa appunto “stupido” e che in passato veniva spesso attribuito allo scemo del villaggio, ma che ormai quasi nessuno, lei compresa, lo adopera più.

Parte di un corredo femminile longobardo, esposto al Museo Archeologico di Cividale del Friuli-particolare

Tutta questa premessa, che parte dalla piccola storia – in questo caso quella della mia famiglia – serve per arrivare alla Grande Storia. Stavolta però la nostra rubrica non si occupa di accadimenti, ma di ciò che il passato ci lascia: non solo reperti e rovine, ma anche una preziosa eredità linguistica. Come abbiamo visto, tuttavia, tale eredità, al pari dei ruderi in pietra, quando non viene tutelata in modo adeguato, è destinata all’oblio e rischia di sparire per sempre.
Un paio di anni fa, durante un laboratorio di ricerca e scrittura creativa, realizzato all’interno delle scuole primarie, chiesi ai ragazzi non solo il significato di schirpa e lifrocu, ma anche quello di diversi altri termini dialettali e nessuno, proprio nessuno, su otto classi coinvolte, riuscì a rispondere.
Ecco perché, in questo nostro brevissimo viaggio all’interno del lascito longobardo all’idioma moderno, ho scelto di partire dal dialetto: oltre a fornire gli esempi più divertenti è quello che ha maggior bisogno di essere protetto e valorizzato, a partire proprio dalla scuola.
Di seguito riporto un piccolo elenco di parole longobarde, che sono passate nel vernacolo locale e nella lingua italiana. Si tratta ovviamente di un elenco incompleto, dato lo spazio a disposizione. Premetto inoltre che l’etimologia di alcuni termini potrà essere oggetto di discussione, sul fatto che sia specificatamente longobarda o germanica in generale; ritengo tuttavia che questo elenco possa comunque fornire uno stimolo, ai più curiosi, per un’ulteriore ricerca.

Italiano

Aizzare da hizzja (furore), albergo da hariperg (alloggio), arraffare da hraffon (afferrare con forza), balcone da balk (travatura), baldo da bald (coraggioso), bara da bara (lettiga), bolzone da bolz (ariete o freccia della balestra), campione da kampjo (combattere), faida da fehida (vendetta), fante da fanpjo (soldato a piedi), greppia da kruppja, guancia da wankja, guidrigildo da widregild (risarcimento), maniscalco da marh (cavallo) e skalk (servo), palco da palk (travatura), pigotta da piga (ragazzina), scaffale da skafa (palchetto), spiedo da spiet (punta acuminata), sgherro da skarrjio (capitano), sguattero da whatari (guardia), spalto da spalt (fenditura), stamberga da stain (pietra) e berga (alloggio), staffa da stapf, sterzo da sterz (manico dell’aratro), tanfo da tampf (cattivo odore), trappola da trap (laccio), truogolo da trog, zaino da zanja (cesta), zazzera da zazz (ciocca) e hera (capelli).

Dialetto

Biot da blausz (nudo), bision da bison (correre in giro), canappia da nappja (naso), gram da gram (triste, irato), lifrocu da lifroch (stupido), schirpa da skerpfa (corredo nuziale), scür (imposte delle finestre) da skur (rifugio), scussal (grambiule) da skauz (grembo), stracc da strak (tirato).

Nomi propri

Aldo, Anselmo, Bruno, Corrado, Goffredo, Manfredo, Raimondo, Rainaldo.

Cognomi

Adinolfi, Aldobrandi, Alighieri, Arnaldi, Baraldi, Berlinghieri, Bernardi, Confalonieri, Garibaldi, Grimaldi, Leopardi, Marescalchi, Sebregondi, Siliprandi, Rambaldi, Tebaldi, Ubaldi, Valcarenghi.

Ai più attenti osservatori non sarà sfuggita la vocale u in fondo al termine lifroch, che in altre zone della Lombardia viene invece pronunciato in modo identico al longobardo, ovvero senza la u finale. Questo accade perché nel dialetto bustocco le ancestrali influenze liguri, caratterizzate appunto da questa vocale, sono molto più presenti.
Famosa la gaffe di Umberto Bossi, che quando venne eletto consigliere comunale a Milano, pensò bene di dedicare ai rappresentanti degli altri partiti il celebre sonetto di Carlo Porta “Paracar che scappee de Lombardia”, che il poeta aveva scritto per i Francesi scacciati dagli Austriaci.
Arrivato al primo verso della seconda quartina (“E sì che tutt el mond sa che vee via”), Bossi, nato a Cassano Magnago, disse münd al posto di mond, beccandosi una salva di fischi dai milanesi d.o.c.: quando si tratta di dialetti, è cosa nota, spesso pochi chilometri fanno la differenza.