Milano, 5 marzo 2020. Prendiamo a prestito il titolo di un celebre film di Stanley Kubrick per fotografare la situazione attuale della cultura in Italia durante la diffusione del Covid-19. Cosa intendiamo dire con l’espressione «musei spalancati chiusi»? Vogliamo semplicemente descrivere quello che sta accadendo.

Ma procediamo con ordine. Quando è stata emessa l’ordinanza regionale la settimana scorsa, le procedure messe in campo sono apparse a chi scrive alquanto discutibili. Perché? Concordiamo sull’importanza di evitare gli assembramenti di persone che determinerebbero il contagio negli spazi chiusi, ma non comprendiamo la scelta iniziale di chiudere i bar dopo le 18 e di lasciare invece aperti i ristoranti. Nei primi il contagio avviene per certo e nei secondi no? Buono a sapersi. Altra riflessione: i teatri e i musei invece sono stati considerati luoghi di grande diffusione del coronavirus visto che sono stati chiusi fin da subito. Non discutiamo l’esigenza di regole certe e di buone pratiche da seguire, è proprio il criterio scelto che ci sfugge. Le disposizioni iniziali sembrano dire ai cittadini: alla cultura si può rinunciare, a mangiare no.

Ovviamente non siamo d’accordo con questo assunto dato che l’Italia è un Paese che ha nel proprio patrimonio storico-artistico un’evidente fonte di ricchezza che ci rende riconoscibili nel mondo. Già Quatremère de Quincy nel 1796 (Lettera a Miranda) scriveva che l’Italia è un museo a cielo aperto. Alla cultura non si può rinunciare, molto banalmente perché ci dà da mangiare e sta già pagando un prezzo altissimo.

Non è un caso l’appello del sindaco Sala che la scorsa settimana invocava la riapertura dei musei, appello accolto dal MIBACT. In che termini? I musei milanesi, ad esempio, hanno ripreso l’attività con biglietti contingentati e con l’obbligo per i visitatori di tenere almeno un metro di distanza tra di loro. Commentiamo queste disposizioni con un modo di dire meneghino: «Piutost che nigot, l’è mej piutost».

Piuttosto che niente, meglio piuttosto, lo ribadiamo. Se è importante rendere di nuovo fruibili i luoghi della cultura, pur con le restrizioni e le precauzioni resesi necessarie per la situazione che stiamo vivendo, quali sono i primi dati di queste riaperture? Alcuni articoli parlano di «riapertura timida», prendendo a prestito una terminologia economica utilizzata per definire la Borsa. Facciamo un esempio. Le Gallerie d’Italia, che ospitano la mostra «Canova / Thorvaldsen. La nascita della scultura moderna», prevede l’ingresso di 30 persone ogni 15 minuti e ha visto circa 400 visitatori a metà della prima giornata di riapertura. Numeri chiaramente più bassi dei 1800 ingressi al giorno, registrati di media negli ultimi tempi, ma che ci fanno sperare in una ripresa.

Non tutti i musei hanno riaperto, come dimostra il caso della Pinacoteca di Brera la cui apertura è prevista per martedì prossimo. Lodevole il format digitale ideato dal direttore James Bradburne che con gli «Appunti per una resistenza culturale» vuole mantenere il legame che Brera ha con la città di Milano e far conoscere le collezioni e il lavoro del personale. Potete trovare queste pillole sia sul sito della Pinacoteca sia sulla sua pagina Facebook ufficiale. Nell’ultimo appuntamento degli Appunti Bradburne conclude dicendo: «Questo museo è cuore nella sua città, è aperto a ogni cittadino…tutti sono qui benvenuti. Noi facciamo il massimo per rendere l’esperienza ispirazionale per ogni visitatore».

Facciamo nostre le parole del direttore di Brera, che valgono non solo per Brera ma per ogni museo italiano che deve essere luogo di condivisione di cultura, di ispirazione, di apertura mentale, soprattutto in tempi di coronavirus. Che i musei restino aperti, con tutte le precauzioni necessarie e già messe in atto. Lo chiede Milano, lo chiediamo tutti.

Eleonora Manzo