Lima, distretto di Pueblo Libre. Museo Nazionale di Archeologia e Storia del Perù. In una bella teca esposta nel cortile, finalmente, troviamo la Stele di Raimondi.

Si tratta del più importante reperto della Civiltà preincaica detta di Chavìn (900 – 200 a.C.), un massiccio blocco di granito che raffigura una divinità dalle molte teste, richiamando i tratti stilizzati di un felino. probabilmente si tratta del Dio dei Bastoni, l’icona più antica delle Americhe, il cui culto si attesta già a partire dal 2250 a.C.

Forse l’immagine sacra vuole simboleggiare le trasformazioni spirituali sperimentate dai sacerdoti sotto l’effetto di piante allucinogene, in particolare il Cactus San Pedro, il cui utilizzo era noto già al popolo Chavìn.

Pare che, quando geografo Antonio Raimondi trovò la stele, nel 1874, essa fosse utilizzata da un campesino, che evidentemente non ne aveva colto il valore storico, come tavolo da pranzo. Lo studioso si affrettò a recuperarla e la portò a Lima, ma non riuscì mai a decifrarne il significato.

Personaggio indubbiamente singolare, lo scopritore di questo reperto purtroppo è completamente sconosciuto ai suoi concittadini milanesi.

Naturalista enciclopedico e grande uomo di scienza, percorse oltre quarantacinquemila chilometri di sentieri peruviani per esplorare con una sensibilità incredibilmente attuale, una terra allora totalmente sconosciuta.

“Mi pareva di non avere occhi sufficienti per tutto” raccontava quest’uomo che ha saputo entrare un contatto, senza pregiudizi, con un mondo nuovo, cogliendo le fonti dell’antica saggezza di quei popoli, osservando e descrivendo una natura ancora senza traccia dell’uomo moderno.

Mi trovo ora nel luogo che ha così tanto affascinato Raimondi da ispirare il suo amore per la terra peruviana: l’Orto Botanico di Milano. Un giorno il naturalista assistette al taglio di un gigantesco Cactus Peruvianus. Studiando quell’evento, egli racconta di aver provato una strana suggestione, come se quella pianta fosse un essere animato e sensibile. Indubbio presagio per l’attrazione che lo avrebbe spinto a conoscere meglio le terre dalle quali proveniva l’enorme arbusto.    

L’emozione per me è davvero immensa.

Proprio qui, nel Giardino della Pinacoteca di Brera, il giovane Raimondi sognò una terra della quale all’epoca non si conosceva quasi nulla e se ne innamorò a tal punto che volle andarci di persona, dedicando addirittura vent’anni della sua vita ad illustrarne la geografia.

Ci ha regalato manoscritti, fotografie, acquarelli, carte, quaderni di appunti, ma soprattutto pensieri profondi di un’attualità davvero sconcertante.

Fu tra i primi, ad esempio, a richiamare l’attenzione pubblica sull’allarmante saccheggio del patrimonio archeologico preispanico e sull’importanza ecologica della Foresta Amazzonica.

Secondo lo studioso, mai come in Perù l’ambiente naturale e l’opera dell’uomo si abbracciarono in maniera così armoniosa, integrandosi in modo equilibrato.

“Pochi capiscono che si possa spendere tutta la propria vita nella contemplazione della Natura e nell’investigazione dei suoi segreti senza tenere in alcun conto l’interesse e la gloria. Comunemente si pensa che quasi tutte le azioni umane abbiano a motivo l’interesse o la speculazione ma per me c’è un terzo stimolo più potente: il desiderio di investigare la verità, senza la quale non v’è possibilità di scienza.”

Il suo lascito scientifico e morale rappresenta uno dei capitoli più splendenti della storia universale delle Scienze Naturali. Il compito di diffondere la sua opera si dovrebbe rinnovare di generazione in generazione, così da trovare nella sua vita una fonte di ispirazione per un futuro migliore.

E’ solo grazie a persone come Raimondi che il pensiero occidentale poté entrare in contatto con le civiltà di mondi lontanissimi e chiedersi se forse la loro non poteva essere solo una delle tante civiltà, non l’unica possibile.