Busto Arsizio – Mentre su tutto il territorio nazionale ed anche nella nostra provincia tornano appuntamenti vecchi e nuovi con la fotografia e i Festival Fotografici a noi piace ricordare un autore, amatissimo, tra i più grandi del nostro panorama artistico e che non appartiene ad alcuna particolare corrente stilistica: Mario Giacomelli.
Molti lo ricordano per i suoi pretini, figure aeree, quasi danzanti e dai contorni sfumati.
Naturalmente Giacomelli è molto di più e molto altro.
Marchigiano, nato a Senigallia nel 1925, ebbe la vita segnata dalla prematura scomparsa del padre.

L’esperienza come tipografo

Appena tredicenne fu assunto come garzone in una tipografia dove lavorò finchè l’azienda non venne distrutta da un bombardamento.
Venticinquenne, in piena fase di ricostruzione post bellica riuscì ad aprire la Tipografia Marchigiana. Solo verso i trent’anni iniziò ad avvicinarsi alla fotografia e nel 1953 si regalò la sua prima macchina fotografica, una Comet Bencini. L’attività di tipografo influenzò sicuramente quella artistica.

Furore creativo di un fotografo atipico

Questo periodo è caratterizzato da una produzione imponente ed è proprio nel decennio compreso tra il 1953 ed il 1963 che nacquero i suoi numerosissimi scatti di fama internazionale, un misto tra reportage, foto di strada e still life.
In questi anni i suoi lavori attirarono l’attenzione di John Szarkowsky, allora direttore del MOMA di New York che inserì l’immagine chiamata “Scanno” (un paese dell’Abruzzo) nella mostra “The Photographer’s Eye” tra gli scatti di Evans, Bresso, Frank, Doisneau e molti altri.

Segni di terra: fotografare come scrivere

Della sua vastissima produzione quella influenzata dall’attività grafica e tipografica a noi appare particolarmente significava: ci parla di tratti casuali, grafiche inconsapevoli che l’uomo nella sua attività umana traccia lasciando memorie e linguaggi che non sfuggono all’occhio del poeta e dell’artista: campi arati, paesaggi naturali che si delineano sul fianco di qualche collina.
…Apposta parlo di segni. Li potrei fare anche sulla carta, nel mare, ma sarebbero tutti voluti, quindi falsi. A me interessano i segni che l’uomo fa senza saperlo, ma senza far morire la terra. Solo allora hanno un significato per me, diventano emozione. In fondo fotografare è come scrivere: il paesaggio è pieno di segni di simboli, di ferite, di cose nascoste. E’ un linguaggio sconosciuto che si comincia a leggere, a conoscere nel momento in cui si comincia ad amarlo, a fotografarlo. Così il segno viene a essere voce: chiarisce a me certe cose. Per altri invece rimane una macchia.

Mario Giacomelli si spegne a Senigallia nel novembre del 2000.

M. Giovanna Massironi