Busto Arsizio – “Una mostra perfetta” l’ha definita Vittorio Sgarbi, al solito senza mezze misure, tranchant o complimentoso. Nella sua recente visita, il probabile futuro assessore alla cultura di Milano aveva apprezzato senza mezzi termini la prima mostra monografica dedicata a Daniele Crespi curata da Andrea Spiriti e allestita a Palazzo Cicogna di Busto Arsizio.
Il commento ha coronato la messe di elogi che ha salutato l’appuntamento.

Giustamente atteso. Fin dagli anni Settanta, in seguito alla emblematica, per alcuni versi straordinaria, mostra Il Seicento Lombardo del 1973 allestita a Palazzo Reale a Milano, curata   allora dal meglio degli studiosi in materia. Negli anni successivi, fu Giovanni Testori, al solito tenace, a fare la spola tra Varese e Busto, entrambe candidate a organizzare l’evento crespino o parte di esso. L’occasione non venne, se non in porzioni da nouvelle cousine nel 1989. Fino ad oggi. Fino a che anche l’Insubria, intesa come Università, la Provincia, intesa come Istituzione, la Regione, e via di seguito, non si misero in moto seriamente e tutto è venuto di conseguenza.

Quasi a coronare un vero e proprio boom di recupero filologico, più o meno rigoroso, di studi sui lombardi “pestanti” negli ultimi cinquant’anni – almeno dalla mostra sempre di marchio testoriano I pittori della realtà in Lombardia del 1953, fino all’ultima I maestri del ‘600 e ‘700 lombardo della collezione Koelliker curata da Frangi e Morandotti.   Entrambe a Milano, ma molte, tra mostre e convegni e pubblicazioni, si sono avuti a corona anche in altri centri della regione, ben prima, per altro, dell’istituzione dell’Assessorato all’Identità Regionale.

Anche Busto non ha voluto essere da meno. Lo sforzo è stato indubbio. Una settantina le opere, prestiti prestigiosi anche da musei esteri, come è già stato scritto dovunque: in particolare dal Louvre, dal Budapest, dal Prado di Madrid. Ma anche dalle collezione pubbliche e private del territorio e non solo.

Ad oggi, i visitatori sono stati poco più di 7000, circa 400 i cataloghi venduti.  Tanti? Domanda cui è difficile dare risposta. Sicuramente non pochi, in poco più di un mese di apertura; sapendo inoltre 1) come sia generalmente complessa la recezione del pubblico in provincia di Varese all’offerta espositiva, moderna o contemporanea che sia 2) conoscendo le difficoltà di comunicazione in cui versano le istituzioni museali sul territorio con poche esclusioni 3) riconoscendo come siano poche le mostre veramente di alto profilo 4) ricordando tuttavia l’exploit di una mostra come quella sui Celti, che con i suoi 10943, detiene probabilmente il record di affluenza degli ultimi anni.

La mostra del Crespi inoltre è ad ingresso gratuito, teoricamente dovrebbe invogliare un gran numero di persone in più, anche i non addetti ai lavori, anche i non specialisti. Una mostra perfetta, si diceva all’inizio. Non essendo propriamente esperti della materia non ci permettiamo di fare appunti specifici nel merito delle singole opere.

Qualche appunto negli aspetti più di contorno, però l’amico Spiriti ce lo consentirà. Innanzitutto l’immagine scelta per rappresentare la mostra: il Ritratto dello scultore Marcantonio Prestinari, opera “poco ricordata dalla critica”, si legge nella relativa scheda, magari rischia di indurre a ritenere che il protagonista della mostra sia uno che ha lavorato di scalpello e di raspa piuttosto che con colori e pennello. Forse c’erano opere più significative da utilizzare anche tra gli stessi ritratti presenti.

Altro punto controverso: il colore di fondo dell’allestimento. Come sempre una questione delicata. Anche in questo caso, per quanto motivato in catalogo dal responsabile delle scelte allestitive, l’utilizzo del viola mosto, individuato per assonanza rispetto al ciclo degli affreschi della certosa di Garegnano a Milano e a quanto emerso dal restauro di Palazzo Cicogna, non è parsa la miglior soluzione, almeno stando ai commenti raccolti.

Abbiamo poi letto, come era doveroso, tutti o quasi tutti, i saggi presenti in catalogo. Profanamente, naturalmente. Ci siamo anche informati su tutti gli estensori dei saggi. Il curatore Andrea Spiriti, lo conosciamo, il suo curriculum è sterminato, la sua bibliografia pure e fortemente specialistica proprio nell’ambito dell’arte lombarda e non ha quindi bisogno di presentazioni, tanto più qui da noi dove, oltre tutto, è docente presso l’Università dell’Insubria.

Anche gli altri, naturalmente sono eccelsi professionisti, ciascuno nel proprio ambito, ma nessuno, tranne alcune eccezioni, ci è parso, in quello specifico di Daniele Crespi. Essendo la prima mostra monografica in assoluto dedicata all’artista ci si chiede come mai non si sia riunito il fior fiore della critica che per anni si è dedicata agli studi sull’artista. Pensiamo a Nency Ward Neilson, ad esempio, autrice della prima monografia sul Crespi nel 1996, o agli stessi Frangi e Morandotti, autori a più riprese di studi diversi su Daniele; o al decano Rosci, fondamentale conoscitore e divulgatore del primo Seicento milanese e piemontese; per non dire del bustocco Giuseppe Paciarotti, autore anni orsono di una tesi di laurea sul pittore e da allora a lungo frequentatore delle sue vicende. La domanda da profani appena un poco avvertiti delle vicende d’arte è: perché non compaiono tra le firme del catalogo?

L’ipotesi di fondo del curatore è che la mostra riveli un Crespi inedito; non semplice “pestante”, non un un pittore meramente ascrivibile alla cerchia controriformistica e borromaica, ma un artista proteiforme, “sismografo dei suoi tempi”,  in grado di assimilare voracemente le novità da Roma, da Bologna, da Genova, fino a Velàzquez, dovunque insomma ci sia materia per arricchire il bagaglio verso un più definito classicismo. Ma soprattutto aperto alle più disparate committenze religiose – domenicane, circerstensi, certosine, francescane – così come ai sorgenti sussulti scientifici o pitagorici-ermetici. Bastano queste nuove proposte a spiazzare la storiografia più tradizionale e i suoi interpreti più abituali e a non farli partecipi della partita?

Semplici rilievi che fanno da contorno ad una mostra, senza voler entrare in questioni più ardue di attribuzione di firme o di date. Per quelle ci saranno i posteri o studiosi dotati di  strumenti critici ben più acuminati dei nostri. E naturalmente senza per questo sminuirne la portata e l’importanza. Che va ribadita e sottolineata. In un territorio e in una città che, come tutte qui intorno, fatica a trovare una dimensione e una vocazione. Semplici dubbi che ci fanno pensare che forse la perfezione sia sempre una passo troppo in là rispetto alle nostre certezze.