Invasione Praga, 1968 © J. Koudelka/Magnum PhotosInvasione Praga, 1968 ©
J. Koudelka/Magnum Photos

Giornate particolari – Josef sale sul carro armato; il cannone è puntato verso un infinito corridoio tra due ali di folla; sembra una immagine costruita con tutto il tempo a disposizione. Ma di tempo non ce ne era in quelle ore convulse; solo un grande colpo d'occhio, solo un funambolo della Rolleiflex, poteva al volo dare una visione così perfetta anche stilisticamente di quell'aggressione così indecente. Poi Josef è sul balcone che guarda la piazza San Venceslao: in primo piano un orologio da polso segna un'ora di punta, ma il viale è deserto, in apnea, in attesa. Poi si butta nella folla; davanti a sé ha un giovane che brandisce una bandiera, sembra un quadro di Delacroix; e ancora, i sorrisi all'alba di una possibile nuova era, le grida di giubilo intorno ai carri corazzati ingombranti ma ancora muti; i soldati stessi, gli invasori increduli di trovarsi in mezzo a gente pacifica e non a rivoltosi violenti; e più tardi la folla disperata nella presa di coscienza che – anche senza spargimenti di sangue – quel simbolo di oppressione non se ne sarebbe più andato via. Sono giorni d'agosto a Praga e in pochi giorni, il sogno primaverile, la Primavera di Praga, e la stagione delle speranza di Dubcek, vengono umiliate nell'offesa ad una città e ad un popolo tutto. Fino al rogo simbolico che chiude quella stagione, nel quale Jan Palach si immola per il sogno di libertà definitivamente perduto.

L'urgenza di documentare Josef Koudelka in quelle ore era in strada, in piazza, lungo la Moldava;  era in Romania fino al giorno prima per un lavoro sugli zingari che in futuro avrebbe prodotto un volume e una ricerca fondamentale, Gipsy; era tornato a Praga il giorno prima che i compagni sovietici entrassero in massa nelle vie della capitale. Come tutti era sceso tra la folla: "Mi sono trovato davanti a qualcosa più grande di me. Era una situazione straordinaria, in cui non c'era tempo di ragionare, ma quella era la mia vita, la mia storia, il mio Paese, il mio problema", racconta il fotografo a dire l'urgenza impellente di esserci, documentare senza un programma, fotografare comunque per il domani.

Invasione Praga, 1968 © J. Koudelka/Magnum PhotosInvasione Praga, 1968 © J. Koudelka/Magnum Photos

L'anteprima assoluta – Quelle foto, una delle testimonianze insieme più veritiere, drammatiche, immediate – al pari, ad esempio, di quelle di Mario De Biasi a Budapest,  12 anni prima,  così come quelle di  Erich Lessing –  delle violenze ideologiche e delle protervie militari in Europa del dopoguerra, diventano immediatamente un terrificante atto di accusa. "Non ero consapevole esattamente di quello che stavo facendo, ma so che avevo paura", racconta Koudelka, presente ad inaugurare la sua  mostra (Spazio Forma, a Milano, fino al 7 settmbre), che per la prima volta racchiude molto di quel materiale in modo così esaustivo, in anteprima assoluta.

La paura e la gloria
– "Avevo paura, tenevo nascosti i rullini", ribadisce. Alcuni scatti giungono tuttavia già pochi mesi dopo in Occidente. Dagli Stati Uniti fanno il giro del mondo. Ma l'autore non può goderne appieno. Per anni saranno indicate come opera di P.P., di un "fotografo praghese". Un anonimato che non gli impedisce di ricevere il prestigioso Premio Robert Capa attribuito dalla Overseas Press Club. Josef lascia la sua patria nel 1970, diventa apolide, ospitato in Inghilterra, poi in Francia, poi sempre più accanito viaggiatore all'inseguimento di quelli che era sempre stati i suoi interessi più cari: il mondo degli zingari, la manifestazioni religiose, il teatro d'avanguardia.

La bellezza dell'immagine
– Da quell'anno Koudelka entra nell'Olimpo dei grandi testimoni della contemporaneità; le porte della Magnum gli si spalancano. Campagne fotografiche su commissione, lavori editoriali imponenti, si susseguono fino ad oggi. Il fotoreporte, oggi settantenne, parla un discreto italiano, frutto di lunghi lavori anche qui da noi. La mostra da lui personalmente curata racconta seccamente, cronachisticamente tutto quello che c'è da sapere di quelle giornate. Lo stupore che si tramuta in rabbia e dolore, la fiducia in rassegnazione, l'illusione in disincanto terribile e ultimale. Racconta, soprattutto, di un talento innato dello sguardo fotografico in grado, davvero consapevolmente, di voler costruire un documento che non fosse solo un grido di dolore, ma una completa, lezione di storia, senza perdere di vista la struggente nostalgia per la forza epica dell'immagine.