"…Forte! Potente!" forse non basterebbe la lapidarietà di Carol Rama per descrivere l'opera di Zoè Gruni, ma certamente questi due aggettivi, nella loro estrema concisione, forniscono un'ottima sintesi di ciò che a primo impatto essa trasmette.
A discapito della giovane età il suo curriculum è di tutto rispetto: dopo aver frequentato l'Accademia a Firenze, porta avanti progetti e collaborazioni dapprima tra Firenze e Pistoia ed in seguito tra Los Angeles, Rio De Janeiro e San Paolo. "…All'inizio è stato faticoso" ammette "soprattutto dopo aver trascorso la mia vita tra Pistoia e Firenze: ho sempre viaggiato molto, ma con la consapevolezza che comunque lì sarei tornata…ai miei affetti, alla mia casa…,ma una volta fatto il salto è stata una vera e propria Rivelazione!".

La spinta, inutile dirlo, è stata data in primis dal provincialismo del nostro paese nei confronti dell'iniziativa culturale, in special modo per quanto concerne l'ambito del contemporaneo: i nuovi progetti stentano puntualmente a decollare per mancanza di fondi, veicolati verso altri lidi a breve termine più redditizi, sicché i giovani artisti non trovano spazio a sufficienza per poter diffondere le proprie idee nonostante l'indiscussa professionalità dei curatori, l'altissima qualità del loro progetto e l'originalità del loro pensiero.

Sbalordisce tuttavia l'infaticabile spirito d'iniziativa che, unito ad una solarità di fondo la porta a parlare dei suoi prossimi progetti: ripartirà a breve per Rio dove inaugurerà la sua prima mostra collettiva, dopodiché a Los Angeles la attende un soggiorno di quattro mesi all'interno di una residenza per artisti, presso cui avrà modo di sviluppare progetti e idee in equipe; è stata inoltre selezionata tra molti altri artisti italiani per partecipare ad un importante evento che si terrà in Germania a fine 2013, promosso dalla VAF Foundation, che ogni tre anni seleziona i lavori più originali di giovani talenti da tutta Europa.

"…E poi?" Nella sua elementarità la domanda, in qualità di giovane appartenente pressoché alla medesima

generazione, mi sorge spontanea. Ma la risposta mi è data con tale serena fermezza, da sortire un effetto rassicurante. "…Non so cosa farò dopo; dipenderà ovviamente dalle mie disponibilità e dalle opportunità che mi si apriranno….è tutto per ora abbastanza magmatico: non so cosa farò in futuro, ma mi sento nel futuro". Dal vitalismo di questa affermazione si comprende almeno in parte quanto l'artista abbia introiettato la propria poetica: il tema della paura è infatti centrale nel processo creativo. Prima di poter giungere a questo punto, il lavoro sul sé è propedeutico: solo una profonda e intima autoanalisi mette in grado l'artista di veicolare con sincerità il proprio messaggio. In estrema sintesi, dall'analisi della propria identità si giunge necessariamente al recupero della memoria, in quanto sua parte costitutiva ed essenziale, e da qui al concetto di paura: solo indagando nei nostri ricordi si possono trovare le risposte ai più reconditi timori.

All'interno di questo processo, si aggiunga infine un gradino intermedio ma assolutamente fondamentale per ultimare la catarsi, quello che potremmo chiamare della condivisione: in tal modo dimensione antropologica ed artistica giungono ad un' amalgama pressoché totale. La paura cosiddetta "liquida" può esser assorbita solo a costo di rinunciare al proprio individualismo (…oggi peraltro imperante); e lavori come quelli della serie Metato lo spiegano bene: la ritualità della festa popolare pistoiese ("metato" è infatti il nome del tipico essiccatoio per le castagne attorno a cui tutti gli abitanti del paese una volta all'anno si radunavano per festeggiare la fine del raccolto) insegna come la collettività sia strumento per dare un nome alle proprie paure, esorcizzandole. "…Non intendo dire che si stava meglio quando si stava peggio!…" dice Zoè: con ciò vuol solamente sottolineare come oggi la mancanza di un'autentica comunicazione, di spazi d'incontro, di attitudine al confronto e alla condivisione, abbia abituato la gente a non trovare risposta alle proprie paure, covando un malessere alienante. A questo proposito la soluzione oggi potrebbe essere fornita dai social networks, "moderni metato".

A questo punto non è un caso, credo, che la maggior

parte dei progetti di Zoè siano collettivi e che la tolleranza verso il prossimo si riverberi anche nell'approccio con il mezzo creativo, assolutamente libero: non si definisce infatti né pittrice, né scultrice, né video-artista, né fotografa (…non ama infatti le "etichette" anche se, ammette, permettono di comprendere meglio la realtà che ci circonda!); il mezzo è usato a seconda del tipo di messaggio che intende trasmettere. É solo il corpo dell'artista che catalizza la funzione dei diversi mezzi espressivi, entrando a far parte infine di un unico processo: il disegno come idea, la scultura come matrice, la performance come azione, di conseguenza il video come strumento di documentazione e la fotografia come immagine finita. Ne sono un esempio i suoi Copricorpo, in cui la scultura viene "vissuta", come a indossare la propria identità; i disegni per il Botatà, mitico mostro brasiliano, interessantissimo preludio di un progetto di scultura composta da copertoni cuciti assieme ma ancora in fase di costruzione; il lavoro fotografico della serie Cryptid, attuato tramite make-up ed effetti cinematografici tipici del retroterra culturale di Los Angeles ed incentrato su un altro filo conduttore all'interno della sua opera, quello della metamorfosi.

Le domando in ultima istanza come, da donna, vive il suo status artistico, la sua professione che, giocoforza, la spinge a continui spostamenti, ad una dedizione pressoché esclusiva e al confronto con un ambito che fino a non molti anni fa era quasi completo appannaggio del sesso maschile. "Non ho mai subito discriminazioni" ribatte "tuttavia la situazione della donna, per via di alcuni schemi mentali radicalmente assimilati all'interno della società, è e sarà ancora per molto tempo diversa da quella dell'uomo. Ho notato situazioni diverse in diverse parti del mondo, e mi sento di collocare l'Italia solo in una mediocre posizione: c'è di peggio insomma, ma anche molto di meglio. Qualcosa certamente è cambiato rispetto a un tempo, ma ciò che più mi ferisce è constatare quanto ormai non ci si renda nemmeno più conto di quel tipo di violenza forse meno plateale ma più subdola, che subisce ogni giorno l'immagine stessa della donna". Non credo a questo punto si debba etichettare questa presa di posizione con uno dei ritriti ismi, spesso sfoderati nel momento in cui non sappiamo cogliere le sfumature all'interno di un pensiero; si tratta solamente di mettersi nella posizione di chi prima o poi dovrà fare delle scelte estremamente pregiudicanti per la propria carriera e probabilmente anche dolorose, senza capire però perché la forza di scegliere sia privilegio sempre e solo di una metà del mondo.