Se c’è un pittore di cui Varese va gelosa, questo è Innocente Salvini. Sarà l’innocenza della sua vita trascorsa al mulino di famiglia, in quel di Trevisago, sarà l’ironia e l’arguzia della sua figura asciutta, schiva e immacolata, non promiscua con le soffitte maledette o i laboratori arcigni dell’arte. Soprattutto il Novecento, ha partorito molti mostri, anche di valore, nati da luoghi e da animi corrotti. Al mulino no, dipingere in un mulino è cimento lento e paziente e produttivo.

Salvini Innocente è anche un caso della pittura italiana del ‘900: ha continuato a dipingere sino a novant’anni, così come a pregare, a sentir messa, a lavarsi le mani. Di lui, la critica militante non si è curata, non sapendolo etichettare a dovere, così come il mercato. Eppure, dipinti del pittore-mugnaio si trovano in tante dimore di Varese e circondario, sino a Milano, ma la gelosia è tale che nessuno dei collezionisti ha voluto essere segnalato nella mostra di Salvini aperta al Castello di Masnago. Salvini è un patrimonio di Varese, Varese non ama la ribalta e se lo tiene nascosto il suo pittore senza scuola, senza movimento, senza ismi di sorta, ma con quei colori che nessuno se li dimentica.

Innocente ha potuto lavorare in pace, non disturbato, così come tanti altri artisti non indigeni ma ritiratisi nelle Prealpi per questa peculiare avarizia nei rapporti umani, che a un artista fa anche piacere, anzi spesso la insegue. La mostra di Masnago è dunque un risarcimento, un ravvedimento? E’ una sorpresa trovare ottanta opere dell’artista al di là del mulino – nel frattempo divenuto Museo Salvini.

Gli è che tutta l’opera e la poetica del pittore ha origine e significato in quel luogo, dove egli ha potuto ritrarre i famigliari, gli animali, il paesaggio circostante, il focolare, trasfigurati in rapporti di colore audaci ma “giusti” e armonizzati. La luce naturale, i suoi contrasti e la perenne insidia dell’ombra vengono tradotti dal pittore in termini di masse colorate. Si costituisce una visione della realtà che muove dall’esperienza sensibile – il mondo quotidiano dell’artista – ma piegata all’espressività dei valori cromatici in gioco e del gesto pittorico. L’effetto è solenne, religioso, da parabola evangelica.

Tanto “povero” e dimesso è il soggetto, quanto ricca e sostanziosa, nella sintesi dei valori luministici, la pittura. Salvini è pittore nella più riposta fibra, padrone del disegno e della composizione, fedele ai suoi soggetti e ai suoi mezzi nella confidenza degli anni. Pittura come confidenza e delirio di colore, invenzione di rapporti che restituiscono la natura, il vero, a una segreta armonia. Salvini dipinge come prega, prega e ringrazia dipingendo.

La scena ripetuta de Il taglio della polenta, con tutta la famiglia del mulino riunita attorno al desco, richiama senza sforzo L’Ultima Cena, così come il fratello Giuseppe sovente ritratto a guardia dei maiali fa pensare al Figliol prodigo.

Quella di Salvini è un’arte intrisa di fede, di luce non solo naturale. E’ anche il canto austero, sacro, di una civiltà cristiana legata alla terra, ai mestieri, alle stagioni e alle generazioni: la madre perennemente chiusa nello scialle potrebbe appartenere al Medio Evo, il colore invece esplora accostamenti arditi, che nella pittura di Salvini trovano un senso e un equilibrio.

Altro aspetto che stupisce è la dimensione delle tele, spesso toccano i due metri di altezza e le figure vi grandeggiano, rivelate da stupendi effetti di controluce. Superando il tradizionale percorso per decadi, che fanno di Salvini come un vino (che arriverà a novant’anni), la mostra varesina propone la scansione cronologica all’interno di nuclei tematici ora tipologici (autoritratti, paesaggi) ora salviniani doc (il mulino, i focolari).

Il curatore, Flavio Arensi, ha chiarito che si tratta di una mostra – e di un relativo catalogo – volti a raccontare Innocente Salvini, a farlo conoscere a un pubblico più vasto di quello ancor troppo ridotto (collezionisti, studiosi e intenditori ) che già lo conosce e lo ama, gelosamente. Questa gelosia, per nobile o interessata che sia, ha da finire. La pittura originalissima di Salvini merita di varcare il suo mulino di origine, la città di Varese, la Lombardia. Pur appartenendo senza ombra di dubbio a queste realtà, il fenomeno-Salvini, a tutt’oggi non ancora del tutto chiarito e comprensibile nella sua genesi artistica, dovrebbe varcare i confini nei quali prima il pittore stesso e poi il suo collezionismo l’hanno relegato.

Se è vero che si sono avute segnalazioni di quadri dall’estero – Germania, Inghilterra, Spagna – e se una mostra importante su Salvini mancava a Varese dal 1969, la speranza e l’augurio è che la riscoperta dell’artista esca finalmente dall’ambito locale. Al Castello, per quasi cinque mesi, è una testimonianza che non finirà di sorprendere. Alcuni paesaggi dell’ultimo periodo – quelli con le macine appoggiate al muro – per intensità ed economia di linguaggio ricordano altre fasi estreme, disadorne e assolute, di grandi pittori del passato, giunti all’essenziale. Da segnalare anche la donazione imprevista alle collezioni del Castello di Masnago di una grande tela del 1934, di cui torneremo a parlare. Un solo appunto: non si poteva scegliere un’immagine più evidente e attraente per il poster della mostra?