Giancarlo Ligabue è stato un imprenditore e un archeologo collezionista tra i più importanti. Nato a Venezia, paleontologo, esploratore, ha partecipato a 130 spedizioni scientifiche in Africa e in Asia. A un anno dalla sua morte, nel 2016, è stata costituita dal figlio Inti la Fondazione che porta il suo nome.

Il suo desiderio era quello di “conoscere e far conoscere” le antiche civiltà umane, il loro spirito religioso, fin dall’età paleolitica, attraverso le tracce di cultura figurativa che hanno lasciato, cogliendone gli aspetti comuni, che sono molti anche in territori tra loro lontanissimi.

Il figlio Inti Ligabue ha presentato in anteprima la terza mostra organizzata dalla Fondazione e intitolata “Idoli. La Scoperta dell’anima”. Le precedenti due mostre, “Il mondo che non c’era” sull’arte precolombiana, e “Prima dell’Alfabeto. Viaggio alle origini della scrittura in Mesopotamia” hanno riscosso un grande successo di pubblico.

Questa nuova mostra che si aprirà a Venezia dal 15 settembre prossimo a Palazzo Loredan, Campo Santo Stefano, propone 100 opere (solo 14 della Collezione Ligabue, per il resto si tratta di prestiti provenienti dai più importanti musei archeologici europei e da privati) che risalgono all’alba della civiltà, dal 4000 al 2000 avanti Cristo e provengono da territori molto lontani tra loro dalla penisola iberica alla valle dell’Indo, dalle porte dell’Atlantico ai confini coll’Estremo Oriente.

Un’idea della Mostra

Nel periodo della cosiddetta “rivoluzione neolitica” si ha il passaggio da clan e tribù a società più complesse, con l’avvento di nuove tecniche di lavorazione dei metalli, le prime forme di scrittura, l’avvio di reti commerciali e di traffici e scambi sempre più fitti. Ci conferma questa teoria la diffusione di materiali provenienti da paesi diversi come l’ossidiana, i lapislazzuli e l’avorio.

In questo periodo, la figura umana viene rappresentata in graffiti, pitture ma anche sculture, statuette di diversi materiali con significato simbolico, religioso, o in funzione rituale. E’ ancora un mistero il senso di queste realizzazioni, ma l’archeologa, Annie Caubet, che ha curato l’esposizione e il catalogo che uscirà per i tipi di Skira Editore, segnala che una delle prime realizzazioni riguarda le “Dee Madri”, rappresentate come donne molto grasse, con ampi seni e fianchi, simbolo dell’opulenza, della ricchezza (figure steatopigie).

Con l’avvento dell’epoca urbana cambiano i canoni delle rappresentazioni e la donna lascia il posto da un lato a forme più astratte, più schematiche, con operazioni di sineddoche visiva (una parte per il tutto) come gli occhi, il triangolo pubico, i seni, o immagini femminili a forma di fallo, in una sorta di sincretismo androgino.

Dall’altro lato, più realistiche, anche se più idealizzate, come statuette di nudi femminili, forse facenti parte di qualche culto domestico, o le statuette cicladiche in marmo, con le braccia incrociate a proteggere la pancia, in stato di gravidanza, in alcuni casi deposte sulle tombe in occasioni di rituali funebri.

La Mostra ci conduce poi a scoprire l’Egitto, con le statuine di argilla dipinta fino alle prime immagini di uomini e dei, come l’Uomo Toro, il Drago dell’Oxus, ibridi tra uomo e animale, con indumenti, abiti, attributi che ne simboleggiano la forza.

Il fascino di questi lavori

Perché queste sculture realizzate da 4000  a 2000 anni prima di Cristo, suscitano ancora tanta curiosità e affascinano profondamente le persone?

Perché, anche senza avere alcuna conoscenza archeologica,  intuiamo che questi oggetti segnano il cammino dell’uomo verso la civiltà. Quando l’uomo scopre il suo corpo, lo riproduce in immagini, pitture, graffiti, o in rappresentazioni tridimensionali, infatti, significa che qualcosa è cambiato dentro di lui.

Diventa consapevole, cosciente del suo ruolo e cerca di scoprire nel corpo che riproduce, nella sua forma esterna, un senso, un fine ultimo, che va oltre la corporeità, anche se ancora non lo sa definire “anima”, e comincia a intuire quel vago concetto di religiosità che, in fondo, è il suo incoercibile bisogno di speranza.

 

Ugo Perugini