Un'opera di MontagnaUn'opera di Montagna

"Abbiamo tolto i figli dall'ombra ingombrante dei padri". E in estrema sintesi la filosofia che anima la XXIII edizione del del Premio Arti Visive Città di Gallarate. A capo della commissione scientifica, Walter Guadagnini, già responsabile di "Modena per la fotografia", in qualità di direttore delle Collezioni Civiche di Modena, presidente della Commissione Scientifica UniCredit & Art, commissiario unico per l'Italia a "Paris Photo" del 2007 e attualmente responsabile della sezione "fotografia" del Giornale dell'Arte dal 2006, conferisce al tradizionale premio gallaratese una certa quale ufficialità nei corsi fotografici italiani più recenti. Ne parliamo con lui.

Guadagnini, come si è andata formando la commissione scientifica e quali le modalità di selezione degli artisti?
"Nel mio caso, sono stato contattato dagli organizzatori che mi hanno spiegato il progetto e chiesto di far parte del gruppo. Per parte mia ho poi suggerito di coinvolgere Roberta Valtorta, direttore scientifico del Museo della Fotografia di Cinisello Balsamo, quindi già conoscitrice anche del territorio; composta la giuria con la direttrice Zanella e gli altri membri, ciascuno di noi ha indicato un certo numero di nomi che, con tutte le avvertenze del caso, fossero inseribili coerentemente con l'idea e l'orizzonte indicato del Premio, dunque soprattutto artisti operanti in una chiave paesaggistica. Da questa prima e più ampia indicazione, si è arrivati ad una selezione finale, degli undici prescelti".

Un numero che credete sufficientemente esaustivo?
"Per dare una totale panoramica forse no, ma per suggerire indicazioni di massima su alcune tendenze in corso, credo di si. E poi non volevamo saturare gli spazi con tanti nomi, ciascuno con un'opera. Abbiamo preferito sceglierne meno ma che potessero presentare un maggior numero di lavori".

Walter GuadagniniWalter Guadagnini

In particolare quali criteri avete adottato per le vostre scelte?
"Innanzitutto un criterio generazionale: abbiamo cercato tra quanti appartengono all'ultima generazione e mezza di fotografi in Italia. Una generazione che si porta dietro una sorta di fama, o quanto meno di una chiave di lettura un po' restrittiva: artisti più o meno ritenuti allievi di, figli di, e via con i nomi dei mostri sacri quasi privandoli di una loro identità. Noi abbiamo cercato di spostarli. Spostarli da questa definizione un po' scomoda evidenziando quanto autonomo ormai sia il loro linguaggio, maturo e strutturato, beninteso sempre nell'orizzonte di una fotografia di paesaggio. E poi, quelli davvero più giovani, nei quali crediamo sia più evidente una gamma di linguaggi più differenziati".

Come si può definire oggi il rapporto delle ultime generazioni con la fotografia?
"Direi con il termine intimità. Una maggiore intimità, un dimensione più privata rispetto all'immagine, più di quanta ne avessero i fotografi precedenti. Si potrebbe condensare in questo modo, che rispecchia anche l'idea di fondo del Premio: paesaggio e memoria".

Da osservatore ben addentro alle dinamiche alla promozione e alla fruizione del bene fotografico, come è attualmente la situazione delle istituzioni rispetto alla fotografia?
"Non mi piace chi si lamenta, ma non posso che continuare a farlo. Dal punto di vista pubblico, istituzionale esiste tuttora poco o nulla. Esiste solo il Museo di Cinisello Balsamo, che fa tanto, ma ha i suoi problemi di visibilità e di centralità; quel tanto è comunque poco nel panorama nazionale. Ed è una situazione che ci penalizza anche a livello internazionale".

Un'opera di SambiniUn'opera di Sambini

E nel privato?
"Non dovrei dirlo io, ma esistono situazioni come quelle di UniCredit & Art che sono particolarmente attive nella attività collezionistica e nel suo rapportarsi con istituzioni museali e iniziative ad alto livello in Europa; o la Fondazione Cassa di Risparmio di Modena, lo Spazio Forma a Milano;  e poi ci sono i festival, che sono anche tanti. Ma, l'ho già detto tante altre volte, questa prassi che il pubblico deleghi al festival non è sempre una buona cosa. Spesso sono eventi episodici che poi in termini di programmazione e di gestione pubblica in merito alla cultura fotografia non lasciano nulla di stabile e permanente".

Come giudica che Gallarate abbia deciso di indirizzare il proprio Premio alla fotografia?
"Lo trovo assolutamente positivo. Soprattutto che abbiano mantenuto la fisionomia e il contenitore di un premio così storico per adeguarlo ad una evidenza: che la fotografia ha ormai un ruolo paritario, se non maggioritario nel campo della comunicazione visiva e nello stesso linguaggio artistico e deve averlo sempre di più nelle collezioni permanenti pubbliche; è il mezzo più diffuso e conosciuto, ormai ineludibile. Credo che per Gallarate sia un passo interessante di attenzione al proprio patrimonio. Un segnale fecondo soprattutto per le possibili future connessioni internazionali".