E’ la quarta personale delle opere dell’artista realizzata negli spazi varesini di Sofia Macchi, la gallerista che, sin dal 2011, ha creduto nella forza e nella profondità delle immagini di Forbici e, da allora, segue il suo percorso artistico.

Jernej Forbici è cresciuto in un angolo della Slovenia devastato dall’inquinamento, sfregiato dalle miniere di estrazione della bauxite, costellato di industrie per la produzione di alluminio e invaso dalle discariche. Con i suoi dipinti e installazioni ritrae la Natura: vuole fissare nel tempo ciò che avevamo, ciò che abbiamo oggi e il poco che potrebbe restarci – un Herbarium conservato nella resina – se l’Uomo non sarà capace di preservare il mondo che gli è stato dato. L’Arte di Forbici ha una missione importante: quella di risvegliare l’attenzione di chi guarda i suoi quadri, dimostrando che qualcosa si può ancora fare e che l’Arte, con la sua inaspettata Bellezza, può essere una denuncia.

Jernej Forbici, per parlare della sua opera, bisogna tornare alla sua terra di origine con le sue difficoltà: com’è nato il desiderio di ritrarre la natura che la circondava in un modo così unico? Il mio lavoro è, in un certo senso, autobiografico. Sono cresciuto in un piccolo paese di una sessantina di case, circondato da ben tre discariche di rifiuti industriali e vicino a una grande fabbrica. Noi bambini giocavamo in queste vaste aree industriali. Ma i miei genitori mi hanno insegnato ad amare la natura, portandomi a camminare. Per questo, quando sono diventato pittore, ho deciso di ritrarre i paesaggi.

Quando ha deciso di dipingere? E’ stato dopo il liceo: prima pensavo che avrei voluto dedicarmi all’architettura, poi ho deciso di dipingere e di iscrivermi all’Accademia: prima sono stato un anno a Lubiana e poi all’Accademia di Venezia dove mi sono laureato.

Ha viaggiato e appreso in  Francia, Inghilterra, Stati Uniti, Canada… Come riesce a unire e rileggere tutti questi stimoli pittorici nella sua arte? Quali sono i suoi modelli di riferimento? L’idea originaria sono la fabbrica e la discarica del mio paese. Viaggiando, però, mi sono reso conto che ‘crimini contro la natura’ si incontrano dappertutto, anche in Italia, dove vivo da tempo. Il paesaggio è un genere pittorico che ha secoli di storia: mi piace l’idea di poter vedere, grazie ai pittori del passato, com’è cambiato l’ambiente che ci circonda. E’ un tipo di ricerca che mi affascina. Nel periodo in cui ho studiato in Inghilterra, ho compiuto una sorta di indagine: andavo a vedere come sono diventati oggi i posti che i grandi artisti avevano dipinto. Tra i pittori che più ammiro ci sono i paesaggisti inglesi John Constable e William Turner e anche artisti contemporanei come il pittore e scultore tedesco Anselm Kiefer e il pittore Gherard Richter.

Come nasce e come cresce un suo quadro? Non faccio schizzi, né grandi studi. Lascio che il quadro stesso mi guidi. Scatto anche molte fotografie per fissare un’immagine nella mia mente. Ma le fotografie sono un mezzo documentario, che mi permette di seguire i cambiamenti di un luogo: non le uso mai mentre dipingo. Da anni colleziono anche disegni, schizzi, video…, oltreché piante, fiori, insetti, cenere, terra…. Li documento e poi li utilizzo per le mie mostre. Quando dipingo ho in testa quello che voglio trasmettere e quando sento di aver raggiunto il giusto equilibrio, quando il quadro comunica il sentimento che voglio esprimere, allora mi fermo.

Quali sono i colori che utilizza di più? Uso i colori della Natura:  normalmente tanto verde, ma in quasi tutti i quadri c’è anche il rosso. Il rosso che uso è il colore di un rifiuto generato dalla produzione industriale dell’alluminio. Intorno alle discariche della mia terra c’è proprio questo fango rosso, che a volte esplodeva mentre veniva trasportato tra i tubi della discarica. Accadeva anche dietro casa mia e i boschi diventavano rossi, tutto il paesaggio cambiava colore. Dopo pulivano, ma in molti punti il colore è rimasto, come sui tronchi della betulle: sono immagini bellissime da vedere, ma profondamente inquinate. In questi 20 anni di impegno il mio rosso è diventato, simbolicamente, altre cose, come il sangue della terra. Uso molti colori non naturali, soprattutto nella parte inferiore delle tele. Sono colori sbagliati. Infatti chi guarda i quadri pensa: ‘c’è qualcosa che non va’. Sono proprio quei colori che non vanno: gli elementi chimici che noi buttiamo nella terra inquinandola.

Parlando dell’opera di Jernej Forbici si parla anche di attivismo pittorico: in che modo mette in atto la sua protesta e che reazione vuole provocare in chi guarda i suoi quadri? Dipingo cantieri e paesaggi distrutti e li metto davanti agli occhi dello spettatore, anche in formato molto grande. Credo che ogni mio quadro abbia fatto pensare chi l’ha guardato. L’Arte esiste per far pensare, è proprio uno dei suoi obiettivi. Tanti mi dicono ‘i tuoi quadri sono bellissimi, però c’è qualcosa che non va…’. Il messaggio è bellissimo, la natura è bellissima: il qualcosa che non va e che deve cambiare siamo noi! Chi guarda le tele e le installazioni deve pensare, si deve sentire piccolo. Noi siamo piccoli rispetto alla Natura. Ho voluto realizzare un Herbarium con ceneri, piante essiccate e insetti,  spesso presi dalle discariche e dai posti abbandonati  e poi icorporati nella resina.

Ho cercato di realizzare un museo futuristico, che permetta – un giorno – di mostrare ai nostri figli com’era la Natura. Perché le cose cambieranno ancora con il riscaldamento globale, le piante scompariranno del tutto. Non so in quanti anni accadrà, ma sta già succedendo. E’ questo il mio modo di fare attivismo. Così supporto le azioni degli attivisti, di quelli che oggi sono schedati come “eco-terroristi” e, spesso, sono chiusi nelle stesse prigioni degli altri terroristi perché compiono azioni forti, come mettere 200 taniche di benzina in fila, tutte collegate, pronte per esplodere. Vogliono distruggere le fabbriche o bloccare la costruzione dei cantieri che nascono nelle zone incontaminate, in mezzo alle montagne, prima che inizino a fare danni.

L’inquinamento dilaga ovunque, anche qui in Italia. Io vivo a Vicenza, che è una delle zone italiane maggiormente inquinate, anche se non si vede niente. Ci si guarda intorno, sembra tutto bello e verde. Ma se si leggono le statistiche, la verità è un’altra.

Sappiamo che è il capitale che guida le scelte. Si continua a produrre finché un luogo è esaurito e poi si va via, si va a sfruttare e a inquinare da un’altra parte. Credo che ci si debba comportare in modo diverso: se guadagni 10 milioni, devi sapere che 3 di questi milioni andranno a coprire il danno che hai fatto. E’ una consapevolezza che da noi ancora manca, mentre in certi paesi, come nel Nord Europa, l’hanno capito. Io temo ci voglia una tragedia, ma forse allora sarà troppo tardi.

Jernej Forbici. Welcome to the Final Show
fino al 17 febbraio 2018
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Chiara Ambrosioni