"Il quadro del Pagliano? Ha una importanza notevole nell'economia della mostra. Perché è una 'foto ricordo' del garibaldinismo, raffigura la stato maggiore dell'esercito di Garibaldi ma soprattutto esprime al meglio lo spirito di compartecipazione che esisteva tra i Cacciatori delle Alpi e il popolo".
Chi parla è Maurizio Bertolotti, curatore della imminente mostra "La nazione dipinta. Storia di una famiglia tra Mazzini e Garibaldi", allestita fino a gennaio presso i Musei Civici di Palazzo Te a Mantova. In una città, spiega, che "che ha una grande tradizione repubblicana: mazziniana prima e garibaldina poi e che ai due movimenti ha dato ampio contributo di uomini, di donne anche, e disponibilità di energie materiali ed intellettuali".
Maurizio Bertolotti, che importanza ha il quadro delle collezioni civiche varesine all'interno del percorso da lei curato?
"Ne ha molta. La mostra ruota intorno alla figura della famiglia Sacchi. Di Achille, medico mantovano e della moglie Elena, comasca. Entrambi patrioti, mazziniani e garibaldini. In particolare, Achille non mancò nessun appuntamento cruciale della vicenda storica delle 'camicie rosse'. Il quadro di Pagliano rivela rapporti sottili di amicizia, tra le altre cose. Achille Sacchi e il pittore si erano già conosciuti durante la difesa di Roma nel 1849. Si ritrovano a Sesto, nell'occasione dell'attraversamento del Ticino. Quando anni dopo Pagliano immortalò l'evento non dimenticò l'amico e lo ritrasse. Ecco perché è un documento particolarmente intenso in questo percorso famigliare".
Il medico e il pittore. Che legame c'era tra loro?
"A Sesto Calende Sacchi era arruolato nel servizio medico, in pratica stava sulle ambulanze. Pagliano era infermiere. Divennero amicissimi. Lettere successive tra di loro confermano rapporti stabili nel tempo, di amichevoli discussioni nei momenti di pausa delle vicende belliche. In questa opera che una bellissima 'foto ricordo' del garibaldinismo, Pagliano immortala l'amico Achille, al centro in basso, accanto peraltro ad altri mantovani Giovanni Chiassi, lo stesso Ippolito Nievo, mantovano d'adozione. Non solo per Varese, ma anche per Mantova, storicamente quest'opera è preziosa".
Dal punto di vista estetico e formale, della sua compiutezza, che giudizio ha dell'opera?
"Sono uno storico, non uno storico dell'arte. Per questo il mio giudizio è dettato da altre considerazioni. Detto questo, lo ritengo assai bello nel suo insieme, forse con l'impressione di essere incompiuto in alcune parti. Mi pare che il colpo d'occhio sia tuttavia di grandissimo effetto. Ma ha un merito, in particolare: l'autore è riuscito perfettamente ha restituire la compenetrazione tra i Cacciatori delle Alpi e la popolazione di Sesto Calende in questo caso. Ed era un aspetto, questo, cui i garibaldini tenevamo moltissimo".
Al di là della ricostruzione della vicenda e del legame tra Pagliano e Achille Sacchi, in mostra e in catalogo ci sono ulteriori novità storiografiche sull'opera?
"Direi che siamo riusciti a colmare tutte le lacune che ancora esistevano in merito al riconoscimento dei personaggi rappresentati. C'è ancora un solo dubbio. Il nome di un certo Magenta. Per il resto, e un'ampia scheda in catalogo darà esasutive argomentazioni e documentazioni, mi pare si possa sintetizzare che l'opera rappresenti davvero lo stato maggiore del garibaldinismo: i grandi capi, i medici, i pittori-soldati al seguito, lo stesso Pagliano, il De Albertis o l'Induno, ma anche tanti garibaldini anonimi".
La 'sceneggiatura' della mostra è data dalle circa quindicimila lettere del Fondo, anzi dei tre Fondi Sacchi.
"Tre fondi, esatto, conservati a Firenze, Bologna e Milano; una fitta corrispondenza che incrocia Achille ed Elena Sacchi con alcune tra le principali personalità del Risorgimento, ma anche con una moltitudine di uomini e donne, in particolare donne, patriote. Tanto che, collateralmente alla mostra, stiamo facendo uscire un volume edito da Marsilio contenente una cinquantina di lettere scritte da una garibaldina comasca, il cui intimo desiderio era essere uomo e servire il generale".
Mantova si, Varese invece ha quasi volutamente voltato la testa dall'altra parte.
"A Mantova persiste una fortissima tradizione risorgimentale. Per il resto non mi faccia entrare in questi argomenti".