Per il suo novantaquattresimo compleanno si è regalato una gita fuori porta, una personale nella Galleria Civasso, e come ciliegina sulla torta la presenza di una sua opera in una collettiva presso la storica Società Permanente.

Ricapitolando: Aldo Alberti ha preso il suo treno, da solo, è sceso in metropolitana, poi si è fatto i suoi bei chilometri quotidiani è andato in galleria a fare un consultivo della sua mostra in corso Garibaldi, "non ho venduto un casso" e poi è andato in via Turati dove insieme alla collettiva dei soci storici è esposta anche l'antologica di Arturo Martini, "l'è bravo chel lì, da bon!".

Poi è tornato a casa. Parlare di un soggetto fenomenale, fisiologicamente fenomenale, è ormai rivelare una banalità. L'indomani è già in studio, a zampettare davanti al suo 2 metri per 1,50 di tela da completare. L'ennesima modella in torsione, su fondo bruno, seduta su pavimento violaceo. C'è da ritoccare i piedi. Poco prima aveva cancellato una tetta. "La pittura è tutto un fare e disfare" ti dice con occhi che sono ancora di brace e un tantino maliziosi. Si gira verso un altra tela, identiche dimensioni, identica modella, quasi la stessa postura. Qui si intravede il seno…"Ma qui sta bene, nell'altro è meglio di no, va via meglio,senza la tetta".

E inizia un lungo discorrere, catalogo della Permanente in mano, sull'arte contemporanea, giudizi e moccoli, si susseguono:
"Bisogna fare il moderno, sì, ma con i coglioni. Ho letto, non lo dico io, eh, che il 10% dell'arte contemporanea resterà, il resto andrà a finire nella discarica" e giù un altro moccolo.
Passa in rassegna un quadro dopo l'altro. E' chiara la predilizione per il figurativo, non potrebbe essere altrimenti. Per uno che ha trascorso più di settant'anni a dipingere paesaggi, nature morte, soggetti sacri, in minima parte per la verità, interni, marine, corpi di donne che emergono dai fondi come rocce e che tiene ancora nello studio una aringa seccata da 45 anni.

"Questa non è pittura – dice guardando più di un quadro – qui non c'è niente, qui non c'è materia, non c'è spessore, non c'è grumo, non c'è lavoro". Non c'è, evidentemente, molta dialettica, con l'Alberti, sulle questioni estetiche.
Ma è capace di illuminarsi se tocchi le corde giuste; Picasso, ad esempio. Allora va nel posto giusto, tira fuori il libro che sa, il Picasso dei periodi blu e rosa, lo piazza sotto il naso e ti dice: "Guarda cosa ha fatto quel padreterno in 6 anni", senza negarsi l'ennesimo moccolo di ammirazione.

 Ma è tempo di sistemare i piedi della figura nel quadro. Si avvicina e si allontana come un felino ancora dotato di una certa agilità. Non lavora mai seduto. Oggi sceglie come musica di accompagnamento Bartok, "senti come è astratto, come è contemporaneo",  e parte con il pennello, poi la riga per tracciare al gessetto un segno, si allontana, cancella, ritorna all'attacco.
Tutto un fare e disfare.

"Non posso più pensare dipingere quadretti, la mia misura è questa, il due metri. Da bon, il quadro certo non è la sua misura. Van Gogh faceva solo piccole tele…" e sciorina tutta la sua competenza mnemonica anche in fatto di centimetri, frutto di una conoscenza vastissima dei quadri visti dal vero e di una mente ancora davvero sorprendentemente lucida nei dettagli.
Ha girato il mondo l'Alberti, ma non ha la macchina. "Cinquant'anni fa ho preso lezioni di guida, ma mi sono accorto che invece che la strada guardava da quà, da là, gli uccelli, il cielo, gli alberi. Mi son detto: Alberti, è meglio la bicicletta, anche se rischio pure con quella".

Viaggi di arte sopratutto. Il primo ad Atene, con l'esercito per il quale eseguiva cartine topografiche. "Mi avevano proposto la medaglia per tutti gli anni passati in servizio. Mi sono impuntato con i miei superiori. Niente medaglie, mandatemi in Grecia a vedere il Partenone". E partì, soldato, era il 1943. Poi la Germania, praticamente prigioniero dei tedeschi, poi la fuga, il ritorno in Italia, l'esaurimento nervoso, l'incapacità di leggere, di camminare al sole.
"Un giorno nella galleria dell'amico Somasca ho cominciato a fissare una pagina per un due secondi, tre secondi, dieci secondi, finchè non mi sono accorto di essere guarito". Da lì ricomincia a dipingere.
I ricordi sgorgano, riaffiorano. "Un giorno Ettore Gian Ferrari mi disse che se fossi vissuto a Milano sarei stato un iradiddio. Invece no. Ho deciso di stare a Busto, neanche per un miliardo vado a Milano".

"Il mondo si regge sull'equilibrio" è la sua regola. C'è forse una regola nello stare nella sua città natale, pur avendo conosciuto e visto da vicino tutti gli ottimi da Carrà a Funi a Sironi, e i migliori galleristi. C'è forse una regola, nel fumare fino ad ottant'anni e da un giorno all'altro dire, adesso basta ho fumato troppo. C'è forse una regola nel tracciare quella riga bianca o nel togliere quella porzione di seno intravisto di schiena. Se c'è, è una regola assolutamente mirabile. "Da bon, son vivo, non mi pento di nulla e non ho nessun rimpianto"