Lullaby Spring di Damien HirshLullaby Spring di Damien Hirsh

London, Tate Britain, 2004. La mostra In A Gadda Da Vida, curata da Gregor Muir e Clarrie Wallis, con le sue quaranta e più opere, ci aveva scombussolati non poco. Il titolo della mostra, mutuato da un LP della psichedelica rock band americana degli anni '60, Iron Butterfly, derivava dalle biascicate parole di un ubriaco Ingle Doug, al momento di registrare The Garden of Eden, come doveva inizialmente intitolarsi la canzone.

Un impatto emotivo forte che cresceva di metro in metro, di opera in opera, di stanza in stanza. Un open space da togliere il fiato, un panorama caleidoscopico, invaso da oggetti pop, a scala reale, nei quali gli artisti sondavano i temi dell'amore, della vita e della morte. Un "memento mori", uno dietro l'altro, una bellezza effimera, forse scandalosa, certamente disincantata ed immediata.

La medicina e il totem – Damien Hirst, Sarah Lucas, Angust Fairhurst.
E soprattutto "Lullaby Spring", del primo.
Un muro di pillole ben allineate davanti ad un enorme specchio la cui superficie è a tratti concava, a tratti convessa. Prozac, Luvox, aspirine, antidepressivi. 
Ne deriva un refrain salutista, ipocondriaco, un'immagine del corpo mai stabile, mai accettabile, mai reale. Una sorta di farmacia domestica ossessiva alla quale si affida la chimera di conquistare l'idea che da tempo immemore seduce l'uomo: l'immortalità o la felità. E ad ogni pillola corrisponde immancabilmente un 'blister', piccolo contenitore asettico per contenerla e separarla da eventuali contaminazioni.
'Pillole' e 'blisters', dunque, come metafora del tempo, dell'esistenza, di una medicina routinizzata e farmacologizzata, qualcosa che entra senza fare rumore ogni giorno nella vita per affievolire il dolore, per

Il lavoro di TorresIl lavoro di Torres

scacciare le paure, per allontanare il malumore, per alleggerire il peso sul cuore.

Dall'altro lato – Quasi agli antipodi si colloca il lavoro di Felix Gonzales-Torres, tragico e imprevedibile, che richiama l'ecatombe dell'Aids.
Questa volta, non pillole o farmaci, ma caramelle e bon-bon raccolti in un angolo della stanza, il cui peso corrispondeva a quello dell'autore cubano morto nel '96 o a quello del proprio compagno di vita (anch'esso malato). Ogni spettatore era invitato a "partecipare", mangiando un cioccolatino o una caramella, all'esistenza dell'artista e alla sua dissoluzione. La lettura più diffusa dei lavori di González-Torres vuole che i cambiamenti delle sue opere – l'esaurimento delle caramelle – siano una metafora del processo di morte.
Sorta di eucarestia laica e spettrale, gettata nell'abisso della tragedia del vivere.