Presso la Fondazione Stelline, in corso Magenta 61 a Milano, è stato presentato il volume: “Armando Marrocco. Io lo conosco” per celebrare i sessant’anni di attività dell’artista di Galatina. Il libro, pubblicato dall’Editore Scalpendi (396 pagg., 20 €), è stato curato da Sara Fontana, docente dell’Università degli Studi di Pavia.

L’evento è stato organizzato dal Centro Studi Grande Milano, un’associazione, nata 15 anni fa, allo scopo di promuovere e divulgare l’idea e i valori di una Milano più grande e autorevole, con un respiro europeo e internazionale. L’occasione è anche servita per presentare l’Associazione Sos Villaggi dei Bambini, che ha come obiettivo principale quello di aiutare i più piccoli, allontanati dalle loro famiglie d’origine, nei loro bisogni e nei loro diritti, favorendone la crescita in un ambiente famigliare accogliente, attraverso adozioni a distanza e donazioni libere.

Ma torniamo ad Armando Marrocco (o Marocco, come amava firmare le sue opere) e alla sua lunga carriera d’artista. Come far conoscere un personaggio tanto complesso e la cui riscoperta, a livello di pubblico e di critica, è cominciata da poco? Nel modo più ovvio: facendo parlare le persone che l’hanno conosciuto a partire dagli anni 60 e 70, che hanno lavorato con lui e ne hanno condiviso esperienze, idee, speranze, progetti.

Armando Marrocco attraverso ventuno ritratti di chi l’ha conosciuto
A questo proposito sono state scelte ventuno personalità – non solo artisti – provenienti da ambiti diversi, come artigiani, imprenditori, architetti, designer, collezionisti, galleristi, ai quali sono state poste alcune domande di base, poi diversamente articolate, allo scopo di ricostruire in modo vivo e tridimensionale la figura di un personaggio come Marrocco che proprio nella poliedricità espressiva ha l’aspetto più autentico e caratterizzante della sua dimensione artistica.

Interviste tutte, tranne un caso, realizzate senza la presenza dell’artista che in qualche modo avrebbe potuto condizionarle, facendo prendere la piega di un “amarcord” troppo personale. Anche la scelta del numero di interviste (21) sembra rispondere a una scelta voluta, in quanto 21 è l’ottavo numero della successione di Fibonacci, che si ottiene dalla moltiplicazione del 3 e del 7, entrambi numeri che simboleggiano la perfezione. Argomenti molto vicini agli interessi e alle passioni di Marrocco, che conosce la geometria pitagorica e apprezza personaggi come Luca Pacioli e lo stesso Fibonacci.

Sara Fontana, alla quale si deve la realizzazione di questo lavoro, ha raccolto le interviste, oltre a documenti e un ampio materiale iconografico, nel corso di oltre dieci mesi, dal dicembre 2016 all’ottobre 2017, costruendo un ritratto sfaccettato non solo dell’artista, delle sue sperimentazioni, delle sue ricerche, ma anche di un’epoca, di un periodo di grandi movimenti artistici ancora poco contestualizzato sia a livello storico che critico.

 

L’arte contemporanea: idee, luoghi, scandali e pettegolezzi
Dobbiamo riconoscere che un tentativo di fornire un quadro un po’ più ragionato di un periodo dell’arte contemporanea piuttosto convulso e, spesso, contraddittorio – utile anche per chi su questi temi ha una conoscenza limitata – lo ha fornito Flavio Caroli, critico e scrittore che ha molto apprezzato il volume, tracciando sinteticamente il percorso artistico di Marrocco che si collega anche alle sue dirette esperienze e alla conoscenza di Guido Le Noci, titolare della Galleria Apollinaire a Brera, personaggio lungimirante, capace di scelte coraggiose e controcorrente.

In questo periodo, l’arte di Marrocco subisce le influenze di alcuni artisti che diventeranno suoi maestri come il francese Ives Klein, di cui condivide una attrazione primordiale legata alla immaterialità dei processi e un’attenzione al carattere esoterico e teosofico della ricerca artistica, senza dimenticare il contributo formativo che riconosce a Piero Manzoni e Lucio Fontana, per un’arte che tenderà sempre più a perdere la sua materialità per diventare infinito, filosofia.

Siamo nei primi anni Sessanta, Marrocco arriva a Milano dalla Puglia, e l’opera che sintetizza questo suo primo periodo è “Intrecci” (1963), nel filone dell’arte programmata, nel quale accanto alla sua forza vitalistica, emerge la spinta verso la tecnologia e contemporaneamente un recupero delle tradizioni artigianali della sua terra.

Altra opera, forse la più conosciuta di Marrocco, è la teca che contiene duemila formiche vive. Un lavoro che trasferisce nell’arte la natura vivente, in linea con altre operazioni di arte povera, tra cui quelle di Kounellis con il pappagallo o i cavalli vivi portati nella Galleria “L’Attico”. Con l’immancabile scandalo che ne seguì.

Degli anni Settanta, sono le opere di Marrocco con forme elicoidali che giocano con gli spazi e che possono richiamare alla mente certi lavori dell’arte ludica di Mario Nanni, sospesi tra fantasia e tecnologia, dove la geometria, come scrisse il critico francese Restany, “si prende una vacanza per il piacere dei più”.

Il 1972 è l’anno fondamentale per il nostro Paese nell’arte contemporanea. Alla Biennale di Venezia Gino de Dominicis espone un giovane affetto dalla sindrome di Down e Marrocco nel filone dell’arte comportamentale o body art si esibisce come protagonista, “mangiando della carta”. Situazioni che creano reazioni non sempre positive e un certo scalpore.

La ricerca autonoma e coerente di Marrocco
In seguito, Marrocco propone la sua opera “Sconcerto” che è uno spartito “cancellato” che attraverso l’ingresso di diversi strumenti musicali porta a un risultato sonoro finale caotico che simboleggia non tanto la confusione quanto l’energia creativa che si dispiega da quelle note. Non solo cancellature, quindi, che potrebbero far pensare ad analogie con l’arte di Emilio Isgrò.

Altra opera importante di Marrocco è “L’ultimo sogno di Magellano” dove fa la sua apparizione il colore, come scoperta di un nuovo orizzonte espressivo. Finisce, secondo Caroli, l’epoca di severità concettuale a cui l’artista ci ha abituato per intraprendere un percorso di maggiore generosità e giocosità visiva.

Marrocco, sempre percorrendo strade autonome, si avvicina all’arte neoinformale con la sua realizzazione “Opera lunga” che, forse, risente di alcuni richiami di un certo neoespressionismo alla Kiefer e alla Schnabel e ricorda la sofferenza dell’artista alle prese con la lotta sulla materia.

Un posto a sé occupano le opere religiose di Marrocco come la monumentale “Città palafitta”, che allude a un certo neocostruttivismo e a una ricerca verso archetipi primari che per certi versi possono appaiarlo ad alcuni artisti minimalisti americani. Archetipi che ritroviamo anche nelle sue armi primitive e negli scudi arcaici.

Dall’arte povera al minimalismo fino all’arte concettuale, per la quale non si può non fare accenno a Mario Merz, anch’egli ispirato dalle leggi matematiche e in particolare dalla successione numerica di Fibonacci, all’arte processuale che ruota attorno al processo intellettuale e progettuale: tutti questi movimenti trovano in Marrocco delle elaborazioni personali e originali, condotte sempre con coerenza e libertà, puntando a un’arte in grado di coinvolgere chi ne fruisce e che, tra gli estremi del caos e della regolarità, possa produrre piacere, bellezza, stupore, magia.

La conferma ci viene da Toti Carpentieri, che ha lavorato con lui (“Calendario”), e che lo definisce l’ultimo sciamano, affascinato dal mito, dal mistero dell’uomo, in una dimensione fuori dal tempo, combattuto tra un ritorno alla natura primordiale (pensiamo alle tele combuste, alle resine, ai legni avviluppati da stoffe colorate) e la deriva tecnica (emulsione fotografica su tela) e tecnologica (arte genetica) fino alle performance videofilmate, quasi a convalidare la premonizione di Fontana che “l’arte rimarrà eterna come gesto ma morrà come materia”. Il tutto compiuto attraverso una ricerca continua tra dimensione simbolica che aspira all’eterno e transitorietà, precarietà.

Grazie a questo libro, la figura di Armando Marrocco assume contorni sempre più delineati, si carica di elementi che consentono di cogliere al meglio tutte le numerose sfumature della sua espressività artistica, inserendo la sua lunga e proficua parabola creativa in un mondo, come quello dell’arte contemporanea sempre più complesso, in equilibrio precario di fronte a un pubblico abituato alla dissacrazione, all’ironia, al non-sublime, all’ordinario, e dove lo sforzo per farsi accettare, ascoltare, apprezzare è sempre più difficile ma non per questo deve reprimere l’esigenza imprescindibile di ricercare sempre e comunque soluzioni e idee nuove.

Ugo Perugini