Trento – Si erano date appuntamento in quell’ambiente di sofisticata eleganza che è il Castello del Buonconsiglio e ora che si stavano avviando a vederla, se lo dicevano la Sofonisba (Anguissola), la Lavinia (Fontana) e la Plautilla (Necci) che anche la Fede (Galizia) una mostra tutta per sé la meritava. Pazienza se, causa covid, essa era stata rimandata di un anno; gran merito invece averla portata a compimento attraversando tante dure difficoltà. Merito delle sempre sapienti, e intelligenti, cure di Giovanni Agosti e Jacopo Stoppa che non si sono mai scoraggiati, trovando anche collaborazione, fervida e motivata, nello staff del castello trentino e nei giovani studenti della Statale di Milano.
Ora diventa obbligo nostro andare entro il 24 ottobre a vedere e conoscere l’arte di Fede Galizia, “mirabile pittoressa” come la ritenne il letterato seicentesco Carlo Torre, una pittrice certo di origini trentine se non addirittura nata intorno al 1578 quando a Trento era principe vescovo Cristoforo Madruzzo e dove si svolse il concilio che riformò la Chiesa. In questa città furono impegnati in lavori d’arte il nonno, uno zio e il padre e la mostra proprio si avvia con un “focus” attento su quest’ultima figura, che di nome faceva Nunzio e che presto emigrò a Milano distinguendosi per esser provetto nell’acquaforte, nella partecipazione all’allestimento di spettacoli teatrali e fin nelle miniature sui ventagli “alla spagnola”. Più che probabile che la Fede nella bottega paterna abbia sviluppato e affinato le proprie attitudini per la pittura, ma tra i due non dovette esserci collaborazione più di tanto anche se a documentarla c’è in mostra una “Allegoria figurativa di Jacopo Menochio e Margherita Candiani” dove la cura minuziosa dei particolari palesa bene l’indirizzo delle scelte in famiglia.

Noli me tangere – Milano, Pinacoteca di Brera

Già nominata nelle “Rime” di Giovan Paolo Lomazzo nel 1587, Fede Galizia seppe guardare entro il mondo pittorico ricco di stimoli che presentava la capitale del Ducato e, a seconda fece le sue scelte. Diligentissima a far copie dal Correggio, pittore molto amato e considerato allora tra i collezionisti milanesi, non mancò di affrontare le grandi pale per gli altari: a Trento è giunta da San Carlo alle Mortelle di Napoli un “San Carlo in estasi davanti alle reliquie del Santo Chiodo” commissionato nel 1611 alla pittrice dal mercante bergamasco Pietro Carbone, mirabile soprattutto per il modo di trattare il prezioso broccato del piviale. E nella stessa “teca” che riunisce le opere dell’artista per generi si possono vedere anche il “Noli me tangere”  dipinto per la chiesa delle monache di Santa Maria Maddalena e ora a Brera, un’opera densa di colti riferimenti, dai pittori nordici a quelli emiliani, con una Gerusalemme di sfondo che pare ambientata sulle Dolomiti, e il “San Carlo penitente”, una tela di edificante compunzione, che ebbe fortuna per via dell’accurata definizione della facciata del Duomo di Milano come era allora.

Giuditta Sarasota, Ringling Museum

La Galizia si cimentò pure sul tema di Giuditta, la vedova di Betania, e scelse di rappresentarlo non nell’atto cruento dell’uccisione di Oloferne, il prepotente capitano di Nabucodonosor, bensì in un momento successivo, quasi incredula di aver compiuto un atto così cruento. Anche nelle tre tele giunte a Trento per documentare il soggetto si evidenzia il “gusto accurato e finito” rilevato dal Lanzi nella sua “Storia pittorica dell’Italia” pubblicata alla fine del Settecento.
Fu pure celebrata ritrattista, non solo dei famigliari e di colti intellettuali milanesi quali lo storico Paolo Morigia  e il medico della peste Ludovico Settala, collezionista anche di sue opere (altre entrarono nella galleria “della Cesarea Maestà di Rodolfo Imperatore”), ma fin di pompose nobildonne come “l’Eccellentissima Signora Donna Maria Giron de Velasco duchessa di Frias”.

Ritratto di Paolo Morigia

Accanto ai suoi ritratti in mostra è presente anche quello del chirurgo Fioravanti dipinto da Daniele Crespi, accostato da Stoppa e Agosti non per documentare affinità stilistiche, che proprio non ci sono, ma per via di una loro storia d’amore inventata dallo scrittore Felice Venosta giusto per far palpitare un po’ le damigelle di metà Ottocento.
Nell’ultima delle edicole specchianti pensate dall’architetto-scenografo Alice De Bortoli per rinserrare le opere della Galizia si ammira il trionfo della natura morta e di “come catturare la vita silente”.

Coppa di vetro con pesche-coll.privata

La prima tavoletta sul tema a noi nota della pittrice data 1602 e da lì in avanti, fino al 1630, anno di peste, quando morì rimasta “sempre vergine da marito”, fu tutto un riprendere crespine di ceramica, alzate di metallo, fruttiere di vetro e cesti di vimini su cui stavano in posa, sempre indagate come in un esercizio di bella calligrafia, pesche, prugne e pere. E mele polpose e lucide come quelle della sua terra trentina.

 

Giuseppe Pacciarotti