Federico Zandomeneghi, RiflessioneFederico Zandomeneghi, Riflessione

Talvolta vien voglia di fare una bella ripassata dell'arte italiana dell'Otto e Novecento nei suoi protagonisti e, perché no?, anche nei comprimari di rango e allora par giusto, invece di farla su poderosi volumi, vederla direttamente nelle gallerie o nelle mostre, occasioni sempre buone anche per rivedere città che serbano monumenti e ambienti visitati magari tanto tempo fa o, addirittura, mai visti per mancanza di tempo o di opportunità.

Così, per l'Ottocento, si può fare una scappata a Pavia dove al Castello Visconteo é approdata la stessa rassegna coronata, qualche mese fa, da un gran successo all'Ermitage di San Pietroburgo. Visitandola, si vede che la mostra é stata pensata proprio per quel pubblico che poco conosce la nostra pittura del XIX secolo: con settantacinque opere essa intende documentarla dal neoclassicismo al simbolismo, volendo anche illustrare dell'Italia i luoghi più celebri o amati (tante Venezie, il Duomo di Milano, Capri…), la storia, dalla Morte di Cesare del Camuccini fino alle guerre di indipendenza (e qui, ovviamente, Fattori, Gerolamo Induno, Faruffini), e gli uomini più noti: Cristoforo Colombo incatenato di ritorno dall'America in un quadro giovanile, e poco conosciuto, di Delleani, Galileo processato in un altro di Cristiano Banti e poi gli immancabili Garibaldi e Giuseppe Verdi.

Certo questa preoccupazione diciamo così promozionale é andata un po' a scapito di una definizione, ed illustrazione, più equilibrata delle varie scuole fiorite in quel secolo che in taluni casi non appaiono presenti con il rilievo che gli storici dell'arte loro assegnano: è il caso per certi versi dei Macchiaioli o della Scapigliatura lombarda (peccato, neanche un Ranzoni!). In compenso però si possono vedere, anche pubblicate sul catalogo in doppia lingua di Skira, tanti quadri di buon interesse prestati da musei poco frequentati: fra questi, oltre alla Quadreria dell'Ottocento dei Musei Civici di Pavia, davvero una miniera arricchita qualche anno fa dal prezioso dono della raccolta dei coniugi Morone, almeno Palazzo Foresti a Carpi per il quale, a questo punto,

Ennio Morlotti, Calendole (part.)Ennio Morlotti, Calendole (part.)

diventa insopprimibile una visita per conoscere tutto il suo patrimonio e per rivedere la deliziosa teletta dipinta da Telemaco Signorini nel suo soggiorno a Parigi col Rendez-vous nel bosco umido di verdi e d'atmosfera proprio a un passo dall'impressionismo.

Dove finisce la mostra pavese, dunque col divisionismo, incomincia quella del Museo di Santa Chiara a Gorizia, città spesso tagliata fuori dai percorsi turistici: ingiustamente perché possiede una sua pulita e civettuola eleganza oltre a monumenti carichi di storia e di arte (il Castello, la chiesa di Sant'Ignazio, antichi palazzi…). Dal paesaggio al territorio. L'arte interpreta i luoghi é il titolo della rassegna che raccoglie opere di artisti italiani di tutto il secolo scorso e già di quello attuale, tutte di proprietà di Intesa Sanpaolo; riuniti in tre sezioni: "sguardi sul paesaggio", "confronto con la natura", "nuove rivelazioni col territorio", quadri e sculture (invero poche) si distribuiscono entro un percorso, sapiente e intelligente, snodantesi negli ambienti freschi di restauro dell'ex convento delle clarisse. Si parte, più che giustamente, da una visione di piazza Unità a Trieste imbandierata di tricolore per la prima volta nel 1918, opera di un interessante ancorché poco noto, almeno da noi, artista triestino, Gino Parin (ma il suo vero nome era Federico Guglielmo Jehuda Pollack), deportato e trucidato a Bergen Belsen nel 1944, e si arriva alle proposte di Ugo La Pietra e dell'ancor più giovane Luca Vitone (classe 1964) che fotocopiando su tela mappe catastali definisce luoghi facilmente identificabili eppure impossibili da vedere nella loro complessità, sul supporto risultando solo una definizione di superfici.

Fra questi due estremi tanti lavori di bella qualità di rinomati artisti e qualche sorpresa inattesa. L'elenco delle opere da ricordare sarebbe lungo e in fondo poco utile; faccio però un'eccezione solo per due: gli Alberi di Casorati, del 1926, in lunga prospettiva e grave silenzio, e le Calendole (1955) dove Ennio Morlotti lavorando febbrile di spatola e di materia riscopre la natura in tutti i suoi palpiti e la sua forza.