Domenica 14 gennaio all’Hangar Bicocca si è chiusa l’esposizione Take me (I’m yours) con la giornata evento Generosity che ha visto alternarsi performance e conferenze

Rompendo ogni canone, i visitatori di Take Me (I’m Yours) possono fare tutto quello che è di norma vietato in un museo: toccare, usare, modificare, consumare o indossare i lavori; possono perfino comprarli, prenderli gratuitamente o anche portarli via lasciando in cambio cimeli personali.
Alcuni esempi? Or not (2017) di Dominique Gonzalez-Foerster è un’opera che esiste attraverso il coinvolgimento dei visitatori che sono invitati a sedersi e a iniziare un dialogo fra loro scegliendo quale ruolo assumere: se dispensare consigli oppure riceverli. Francesco Vezzoli, invece, ha messo a disposizione un disegnatore per chiunque voglia farsi ritrarre.

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La mostra è anche un progetto che si evolve e si rigenera nel tempo.
Allestita per la prima volta nel 1995 alla Serpentine Gallery di Londra – e a partire dal 2015 in
versioni ogni volta diverse in istituzioni a Parigi, Copenhagen, New York e Buenos Aires –, l’
esposizione ha avuto origine da una serie di conversazioni e riflessioni, risalenti agli anni Novanta, tra il curatore Hans Ulrich Obrist e l’artista Christian Boltanski sulla necessità di ripensare i modi in cui un’opera d’arte viene esposta.

In particolare, l’idea per il progetto è iniziata con Quai de la Gare (1991), un lavoro di Boltanski costituito da montagne di vestiti di seconda mano che il pubblico poteva prendere e portare via in una busta marchiata con la scritta “Dispersion”: un’opera destinata per sua natura a disperdersi e a scomparire.

A Milano, accanto a Dispersion di Christian Boltanski, le opere di oltre cinquanta artisti sono state allestite nei mille metri quadrati dello Shed di Pirelli HangarBicocca. “L’idea nasce dal ‘tabù’; che in una mostra le opere non si possono toccare, reinventando le regole del gioco” ha spiegato Obrist durante la presentazione.

In un’intervista, rilasciata a Repubblica, il curatore svizzero aggiunge:
“Un curatore deve svolgere una funzione utile per l’arte e per la società. Deve costruire ponti, mettere in contatto realtà diverse. Con questa mostra, ‘Take me (I’m Yours)’, mi piace l’idea che gli oggetti esposti vengano portati via dagli spettatori e dispersi nel mondo. Appariranno in contesti diversi, entreranno in case in cui le opere d’arte non sono mai entrate né mai entrerebbero. Questo significa costruire ponti, creare connessioni. Se incontriamo l’arte dove non ce l’aspettiamo, l’impatto è assicurato”.

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All’Hangar Biccocca i ponti sono stati costruiti, i visitatori hanno davvero incontrato l’arte. Personalmente ho scoperto, un volta di più, che l’arte è gioco, condivisione,
apertura. Che Take me (I’m yours) possa continuare il suo viaggio a lungo!

Eleonora Manzo