La Storia come ce la insegnano a scuola è spesso un lungo elenco di date, di nomi, di vicende, di battaglie, che la maggior parte degli studenti ha già scordato il giorno dopo l’interrogazione. Perché? Le risposte potrebbero essere molteplici, ma a me ne viene in mente una in particolare: mancanza di empatia. Gli eventi che siamo costretti a studiare sembra quasi riguardino esseri viventi non di altre epoche, ma addirittura di altri pianeti, e il rischio “chissenefrega” è sempre in agguato.
Forse tale rischio si potrebbe evitare se, invece di partire da quello che gli uomini e le donne del passato hanno combinato, cominciassimo a esaminare il modo in cui conducevano la loro vita di tutti i giorni: dove e quanto dormivano, come si svegliavano, cosa mangiavano, cosa adoperavano per lavarsi o per curarsi… e tutta una serie di informazioni riguardanti la loro quotidianità. Magari in quel caso cominceremmo a comprenderne la vera umanità, il loro essere uguali a noi per molti aspetti e diversissimi per altri.
Nelle mie ricerche ho sempre prestato molta attenzione a certi particolari, anche perché il compito di un romanziere è proprio quello di far sì che il lettore si immerga fin dal principio non solo nella trama, ma anche nella vita concreta dei protagonisti. In questa rubrica cercherò dunque di seguire la stessa linea, nella speranza di suscitare la vostra curiosità e magari di farvi riconsiderare alcuni accadimenti famosi sotto una luce diversa.
Con l’articolo di oggi chiuderò il cerchio dedicato all’epopea longobarda in Italia, parlando proprio di alcuni aspetti riguardanti lo stile di vita dei nostri antenati intorno al VII secolo d.C.

Iniziamo da un fattore importantissimo per l’uomo moderno, ma che nell’alto medioevo contava assai meno: la misurazione del tempo.
Oggi noi viviamo con un occhio alla realtà e l’altro sempre all’orologio, sia che ci appaia sullo schermo del pc o dello smartphone, sia che si trovi appeso alla parete di una stanza: senza quello ci sentiamo persi.
Una volta però non era così: ci si alzava col sole e si andava a dormire col buio e tutto quello che succedeva nel mezzo non era scandito con maniacale precisione. Certo, a volte sorgeva comunque l’esigenza di misurare in qualche modo la durata del giorno e della notte; ma non si trattava di un bisogno quasi maniacale, come quello che invece oggi attanaglia tutti noi.
Il modo di suddividere una rotazione completa del nostro pianeta intorno al proprio asse, nel VII secolo, non si discostava poi molto da quello adoperato nei secoli precedenti dai Romani: il giorno era suddiviso in dodici ore (dall’alba al tramonto), mentre la notte in quattro vigilie (dal tramonto all’alba). Va da sé che alla nostra latitudine questo tipo di suddivisione, abbastanza equa in primavera e in autunno, nelle altre due stagioni mostrava tutti i limiti della sua elasticità: in estate le ore si allungavano e le vigilie si restringevano parecchio, mentre in inverno accadeva esattamente il contrario.
I vari momenti del giorno e della notte erano scanditi, soprattutto per i monaci, oltre che dal lavoro e dal riposo, dall’obbligo di recitare determinate preghiere. In questo periodo fanno la loro apparizione le prime campane, le quali, oltre ai religiosi, avvisano pure il resto della popolazione circostante dell’ora ufficiale: preoccupazione superflua, penserà qualcuno, visto che nessuno ha ancora al polso un orologio da regolare.
Per illustrare tale sistema, ho creato un’apposita tabella, che spero vi aiuterà a comprenderlo meglio.

Seconda tappa del nostro viaggio: il cibo.
In questo periodo, rispetto ai secoli precedenti, purtroppo si compiono parecchi passi indietro.
L’agricoltura quasi intensiva dell’epoca latina sparisce, sia per via dell’enorme calo demografico, antecedente e successivo alla caduta dell’Impero Romano d’Occidente, sia a causa del cambiamento climatico, che porta a una diminuzione delle temperature e a un cospicuo incremento delle piogge. Non è neanche più possibile attingere alle risorse di terre lontane, più fertili e ancora ben coltivate, perché pure le comunicazioni via terra o via mare hanno subìto un drastico ridimensionamento, e in ogni caso mancherebbero i quattrini per pagare le derrate e le merci necessarie per dar vita a uno scambio equo.
Per alimentarsi si torna dunque alla caccia e all’economia di tipo silvo-pastorale che in Italia aveva caratterizzato la prima età del bronzo.
Di rado si macellano i bovini, troppo preziosi come strumento di traino dei carri o dei pochi mezzi agricoli, che pian piano provano a strappare la terra alla vegetazione spontanea che se n’è riappropriata.
Ci si nutre, oltre che di selvaggina di vario genere, di carne di pecora o di maiale e, proprio a causa del clima, per fortuna esiste una grande abbondanza di pesce d’acqua dolce.
Tra le poche culture che sopravvivono, e che non hanno bisogno di cure eccessive, troviamo quelle delle fave, dei piselli, delle lenticchie, dei porri, delle cipolle, delle carote, dei sedani, dei ravanelli, della lattuga.
Il pane bianco di frumento è considerato un lusso e appare solo sulle tavole dei benestanti, mentre è più facile reperire quello cotto con farina di segale.
Anche l’olio di oliva nelle mense del nord della Penisola è da considerarsi una rarità, mentre la produzione di vino, seppure di qualità non certo eccelsa, non subisce sostanziali interruzioni. I Longobardi, specie quelli delle classi sociali più elevati, lo adottano molto presto come bevanda preferita, lasciando la birra ai poveri. Una prova di questo cambio di abitudini la troviamo nel famoso Editto di Rotari, di cui abbiamo parlato nel nostro precedente articolo, dove esistono diversi cenni alla protezione delle vigne, mentre alla “bionda” non viene dedicata neppure una parola.

Terza e ultima tappa del nostro breve percorso: i vestiti.
Le fibre più usate per tessere indumenti sono il lino e la lana; perché il cotone si diffonda in Europa dai paesi arabi bisognerà infatti attendere almeno altri quattro secoli.
Gli uomini indossano tuniche e larghe camice per coprire il busto, mentre le gambe sono protette da pantaloni stretti intorno alla caviglia, che costituiscono la differenza più evidente rispetto all’abbigliamento latino di epoca classica. Sopra la tunica o la camicia, durante i periodi più freddi si porta il mantello, chiuso sulla spalla destra con una o più fibule. Non si disdegna anche l’uso di pellicce: in gran voga, sia tra i nobili sia tra le classi inferiori, il corpetto senza maniche, molto pratico da utilizzare, specie a cavallo o nell’esecuzione di lavori che richiedono una certa agilità di movimento.
Le donne non indossano le “bracae”, ma tuniche che arrivano quasi fino ai piedi; il mantello, invece di essere fissato alla spalla, viene chiuso sopra il petto, appena sotto il collo, sempre da fibule, spesso di raffinatissima fattura.

Per dettagli più approfonditi ancora una volta vi consiglio “La vita quotidiana dei Longobardi ai tempi di Re Rotari” di Dario Pedrazzani, GA editore.

Dopo aver completato questo primo ciclo storico, e dovendo adempiere a improrogabili impegni letterari, mi prendo una pausa di un paio di settimane da questa rubrica. Mi sono altresì accorto che raccontare la Storia in modo leggero è diventato un lavoro piuttosto… pesante. Per questo al mio rientro ho già deciso di avvalermi dell’aiuto di alcuni validi collaboratori, che spesso parleranno in vece mia, dandomi modo di riprender fiato.