Un immobile ristrutturato rispettando le sue caratteristiche originali, con una torre dalle supercifi vetrate che riflette il cielo e il correre delle nubi. Stiamo parlando dell'edificio di via Rossini a Milano, progettato da Mario Asnago e Claudio Vender nel 1962 e recentemente riadattato alle nuove esigenze d'uso di ManpowerGroup, leader mondiale nelle innovative workforce solution con alle spalle 65 anni di esperienza nel mondo del lavoro per creare modelli, disegnare pratiche e attingere ai talenti di cui i clienti avranno bisogno in futuro.

Il volume edito da Skira, curato dall'architetto Federico Brunetti, corredato di riproduzioni dei disegni originali e da un portfolio fotografico di particolare qualità relativo alle recenti opere di restauro filologico e all'attualizzazione funzionale secondo le esigenze e normative tipiche del terziario , presenta questo emblematico esempio di palinsesto del moderno, nel quale l'eredità materiale e culturale del Novecento ha portato alla necessità di affinare metodologie di conservazione e recupero funzionale attuali e sostenibili.

Scrive a tal proposito Monica Lattuada nel suo contributo dal titolo "Asnago e Vender e un moderno classicismo": "Il materiale d'archivio relativo a questo progetto è particolarmente interessante e completo. È costituito da numerose varianti di progetto fi­no a quella realizzata illustrata con lucidi originali a matita disegnati a tecnigrafo. Le diverse varianti sono documentate con schizzi a carboncino colora­to su lucido, schizzi di solo carboncino, disegni a ma­tita colorata ed eliocopie originali con appunti a la­tere: si parla di circa seicento fogli o più non ancora inventariati completamente. L'analisi e il raffronto di questo materiale ci mostrano un processo progettuale insolito rispetto ad altri progetti degli architetti, ma sempre interessan­te e ricco di stimoli. In particolare cercherò di spiegare come gli schizzi iniziali a carboncino colorato si inseriscano nel loro processo progettuale e come la loro forza espressiva li renda parlanti e validi di per sé. Ricordo la sensazione provata nel vedere per la prima volta un loro schizzo a carboncino colorato su lucido, non sapevo con esattezza a quale progetto corrispondesse, ma mi ha trasmesso una grande emozione, la stessa che provo davanti a un quadro di buon livello.

Mi hanno coinvolto il dinamismo delle linee, l'equilibrio della composizione e il gioco dei colori: lentamente mi sono sentita all'interno del lo­ro mondo e poi di uno più vasto. I loro schizzi con colori primari e complemen­tari forti e luminosi trasmettono la positività, il fer­mento e la grande vitalità culturale di cui era im­pregnata Milano negli anni cinquanta e sessanta; i tratti decisi a mano libera indicano la fiducia nella li­bera espressione. Hanno la capacità di far affiorare l'ambiente e l'atmosfera di quel periodo e per questo là loro va­lenza trascende il campo della sola architettura.

La tecnica mostra con immediatezza il connu­bio tra arte e architettura, la carta da lucido, a cui siamo soliti associare linee a riga e squadra, china e matita, dialoga con i tratti marcati del carboncino, solitamente usato, da artisti e madonnari, sfumato a mano per creare chiaroscuri ed effetti pittorici su carta ruvida o su asfalto. Il supporto molto liscio e il tratto netto del car­boncino sono un adattamento forzato di due prati­che artistiche divergenti che cercano di mettersi l'u­na al servizio dell'altra e di relazionarsi, palesando l'importanza della pittura nel loro fare architettura. La pratica della pittura è da ricondurre agli an­ni giovanili della loro formazione all'Accademia di Brera, dove si incontrano e dove scoprono quella passione per il mondo e la pratica dell'arte che li ac­comunerà sempre e a cui entrambi si dedicheranno in maniera assidua in tempi diversi della loro esi­stenza. Nella vita privata, inoltre, dichiararono di prediligere più le frequentazioni dei pittori che quel­le degli architetti. Interessante è relazionare gli schizzi con gli edifici realizzati che appaiono. di primo acchito, molto distanti tra loro per la diversità dei linguaggi espressivi; in realtà, una analisi più attenta ci mostra la connessione diretta con il progetto esecutivo.

Il confronto tra gli schizzi della facciata su via­le Majno e la soluzione di progetto della stessa facciata datata 20 gennaio 1961 è im­mediato e molto chiaro. I materiali, gli allineamen­ti e il ruolo delle differenti componenti della faccia­ta ci appaiono spiegati nello schizzo che ci aiuta a comprendere il processo progettuale. Nel progetto esecutivo, il cui scopo è quello di comunicare alle maestranze i dati tecnici per la rea­lizzazione, è più difficoltoso rintracciare le leggi compositive che hanno dettato il progetto. La prati­ca dello schizzo iniziale di facciate e di piante co­struite come un quadro è il loro modo gestuale e istintivo per fissare con rapidità e forza l'ispirazione. l'idea, la legge compositiva e il linguaggio dei pro­getti. La valenza cromatica dei colori sostituisce negli schizzi i materiali della facciata (marmo e vetro) che si contrappongono con pesi diversi; i tratti deci­si del carboncino nero marcano gli allineamenti e gli slittamenti delle aperture e visualizzano la trama e l'ordito della facciata. Questi disegni astratti che sembrano eseguiti di getto contengono già la consapevolezza dell'inse­rimento dell'edificio nel tessuto urbano e della fun­zione che dovrà svolgere.
All'interno della Biennale 2012 Fulvio Irace in­daga il tema del "Common Ground" nelle facciate della Milano della ricostruzione. I curatori della mo­stra, dopo aver visionato vario materiale d'archi­vio, colpiti dall'impatto emotivo dei disegni scelgono i due schizzi di facciata su viale Majno per mostrare il modus operandi di Asnago e Vender. Da un discorso più generale sulla valenza degli schizzi nell'opera dei due architetti passiamo ad analizzare più approfonditamente il materiale rela­tivo a questo progetto. I primi schizzi di piante risalgono al novembre 1959, mentre gli schizzi per la facciata su viale Majno non sono datati ma sono conformi alle piante del 1959.

Nel gennaio 1961 ci troviamo di fronte ad un progetto praticamente esecutivo, dettagliato nelle piante, nei prospetti e nelle sezioni, che ricalca le in­dicazioni dei primi schizzi. Questo progetto è in sin­tonia con la maturità linguistica a cui gli architetti erano giunti in quegli anni e in qualche modo anti­cipa quella ulteriore scarnificazione della facciata che caratterizzerà i loro edifici successivi, in cui il ve­tro sarà sempre più il protagonista. In questa soluzione, come documentano gli schiz­zi, molta attenzione è dedicata alla facciata su viale Majno, che diventa punto di forza del progetto ed ele­mento con cui l'edificio si relaziona con la città e dia­loga con le residenze e gli uffici di prestigio del viale. Quando tutto sembrava deciso e pronto per la realizzazione assistiamo a una trasformazione ra­dicale del progetto dal punto di vista linguistico. Non ci è dato conoscere la motivazione, ma pos­siamo ipotizzare la volontà della committenza di avere una facciata più rassicurante e conforme ai vi­cini edifici eclettici.

In soli tre mesi, dai primi di gennaio ai primi di aprile 1961, Asnago e Vender trasformano radical­mente il linguaggio delle due facciate su strada e del­l'atrio d'ingresso. Le piante, i prospetti interni e la di­stribuzione rimangono sostanzialmente invariati, mentre viene cambiata l'immagine della parte rappresentativa dell'edificio, la pelle esterna.

In breve tempo e con grande maestria, i due ar­chitetti riprendono i processi progettuali degli esor­di novecentisti, quando si rifacevano al classicismo prendendo a modello gli antichi, e arrivano a un progetto dettagliato e definito. Il modello di archi­tettura classica scelto, azzardo un mio parere, sem­bra proprio essere Palazzo Massimo alle Colonne di Baldassarre Peruzzi del 1532: su questa base viene ripensata la facciata principale che questa vol­ta è su via Rossini. Picasso diceva: "I mediocri imi­tano, i geni copiano." Sembra il caso di questa fac­ciata, che viene riproposta da Asnago e Vender con tutti gli elementi dell'edificio del 1532.

L'ingresso sulla strada si struttura con un'a­pertura centrale più ampia e due aperture laterali divise da colonne. La trabeazione sopra le colonne, che nel palazzo romano nasconde balconcini pieni e dentellati, è riproposta con una fascia frastaglia­ta di balconcini impraticabili in cui il ferro è usato sia per la ringhiera che per l'effimero piano di cal­pestio, realizzato con piatti in ferro molto distan­ziati tra loro che visualizzano l'inconsistenza del balcone.

Le finestre quadrate del mezzanino diventa­no dei serramenti fissi nella ringhiera piena del se­condo piano. Il finto bugnato a stucco del palazzo cinque­centesco viene riproposto attraverso un rivestimen­to in granito rosa fugato.

Anche l'atrio d'ingresso ha dei rimandi 'diretti all'antico palazzo: le quattro colonne che disegnano il secondo cortile le ritroviamo all'ingresso; le pare­ti laterali dell'atrio compaiono in alcuni schizzi come nel progetto originale; il piano curvo della facciata che non poteva essere riproposto su strada lo ritroviamo nel loro edificio in una soluzione in pian­ta dell'ingresso.

Vale la pena spendere due parole per descrivere il carattere degli schizzi a carboncino e a carboncino colorato su lucido da cui si è sviluppato il progetto definitivo realizzato. La pianta dell'atrio in carbon­cino sfumato rievoca le piante di architetti ri­nascimentali mentre i colori degli schizzi degli alzati, che hanno perso la luminosità di quelli della prima versione di progetto, sembrano complessivamente denunciare una sorta di oscurantismo.

Questo edificio potrebbe apparire a prima vista un'opera meno riconoscibile, ma i documenti origi­nali e l'edificio realizzato ci regalano ancora una volta un'avvincente lezione di architettura e di pro­fessionalità".