L'Arte è l'unica testimonianza della grandezza dell'uomo e del suo intrinseco desiderio di libertà. Chi mira a soggiogare l'uomo deve imprigionare l'Arte, depredarla e, nel peggiore dei casi, distruggerla. Così che non vi sia più memoria dell'anima da cui sono scaturite forme, volti e colori.

Parte da questo assunto "Monuments Men", l'ultimo film di e con George Clooney, impegnato da anni in una pregevole operazione culturale. Le sue regie, da "Confessione di una Mente Pericolosa" a "Goodnight and Goodluck", passando per lo spensierato "In Amore Niente Regole" e per il cupo e notevole "Le Idi di Marzo", non fanno che denudare l'inganno, rivelando la meschinità di ciò che, apparentemente, fa riferimento a un ideale. Che sia la delirante immoralità dei Servizi o la cinica ipocrisia della politica, l'America che a Clooney interessa mostrarci è quella meno dibattuta, meno popolare, più nascosta.

A volte perché imbarazzante, altre volte perché estranea alle logiche dell'intrattenimento, che faticano a combinare l'attrattività popolare dello spettacolo con la complessità narrativa del retroscena. Ed è proprio nell'ampia sfumatura grigia che separa questi due estremi che l'autore di Monuments Men ha giocato finora molte delle sue carte artistiche. Attingendo a piene mani dalla migliore eredità della New Hollywood, quella che raggiunse l'apice negli anni Settanta sdoganando talenti come Pollack, Pakula, Lumet e Friedkin, Clooney ha saputo presentare al pubblico, in termini accessibili e accattivanti, racconti difficili o apparentemente impopolari.

"Monuments Men", ispirato alla vera storia del reparto statunitense, che alla fine della Seconda Guerra Mondiale fu incaricato di recuperare i capolavori rubati dai nazisti, non fa eccezione. Anche se, di tutti i titoli citati, è probabilmente il meno riuscito, o meglio, il più incompiuto.
La parte migliore sta nel soggetto e nei risvolti metanarrativi che la vicenda attraversa. Al centro della missione, c'è il salvataggio della Bellezza. L'orrore della guerra, con tutta la sua fragorosa brutalità e il gretto materialismo della razzia, si contrappone all'armonia delle forme, delle tinte, dei volti raffigurati o scolpiti. Riprendendo la "caccia al tesoro" splendidamente immortalata da Frankenheimer ne "Il Treno", Clooney spinge poi la narrazione su un piano più politico e dialettico, tratteggiando una versione simmetrica dello spielberghiano Soldato Ryan.
Là il morente ufficiale ammoniva la giovane recluta, chiedendole di dimostrare nella vita di aver meritato il sacrificio altrui. In "Monuments Men" quella promessa si spoglia di ogni parvenza individuale, per estendere il suo portato etico a un'intera collettività. I soldati smettono di essere difensori della Patria e diventano difensori di ciò che l'uomo ha di più prezioso e che l'abbruttimento, la crudeltà e la violenza rischiano di estirpare.

I Monuments Men non combattono e non muoiono, se non per caso. Sbarcano quando il D-Day è già bell'e concluso. Si addentrano in centri già espugnati, battono terreni già "bonificati". Sono spettri, in missione per conto di Dio. Il loro successo coincide con la nostra redenzione.

Il problema è che questo grandioso substrato testuale avrebbe meritato un impianto registico più robusto. Più portata per le sequenza da camera che per quelle di ampio respiro, la regia di Clooney si perde in una serie di sequenze di raccordo deboli, evitabili, ostentatamente funzionali a una trama che procede a singhiozzo lungo un percorso piuttosto prevedibile. Restano una bella e corale prova di attori, un racconto solido e intrigante, un'ambientazione già vista ma ancora suggestiva.
E il coraggio di un autore che ha ancora dei tratti acerbi, ma che conosce il significato del verbo rischiare.