Milano, Fabbrica del Vapore. Nel penultimo weekend di apertura di Inside Magritte, la mostra immersiva dedicata a Renè Magritte, ci siamo messi diligentemente in coda. Ma è valsa la pena attendere? Ci siamo realmente immersi nel mondo dell’artista surrealista? Rispondiamo con un secco no.

La mostra è risultata essere un’occasione sprecata. Quello che manca è proprio l’experience tanto decantata. Andiamo con ordine. Una volta che si fa il proprio ingresso nello spazio espositivo, si viene accolti in una prima sala dove è ricostruita la vita dell’artista: sulla parete di fondo alcuni pannelli rendono illeggibili le tappe del percorso di Magritte, discutibile infatti il colore scelto per il font. Troppo fitta anche la descrizione, aggiungiamo.

Nella seconda sala una serie di schermi e pannelli raccontano più nel dettaglio la formazione dell’artista. Didascalico, ma nulla di più.
Il pezzo forte dovrebbe essere la experience-room, che permetterebbe al visitatore di immergersi totalmente nella produzione del surrealista belga per 50 minuti. Quello che ci si trova davanti entrando è una sala ricreativa, con instagrammers in azione e immagini multimediali ripetute sulle varie pareti. Forse lo spazio sarebbe potuto essere più coinvolgente se ci fosse stata una copertura. Anche il cubo posto al centro del locale con gli effetti che genera sa di già visto.

Ma c’è qualcosa di apprezzabile in questa stanza? Sì la musica scelta per avvolgere il visitatore. Davvero clamorosa, a tratti commovente. Stiamo parlando non a caso di Erik Satie, Gabriel Faurè, Calude Debussy e Maurice Ravel, per citarne solo alcuni.

La musica non basta però a salvare Inside Magritte; alcune esposizioni degli ultimi anni hanno permesso esperienze molto più immersive. Due esempi su tutti: l’esposizione dedicata ad Escher, organizzata a Palazzo Reale e la monografica sulla fotografa Sarah Moon all’Armani Silos. Nel primo caso, il visitatore veniva coinvolto attivamente nel percorso espositivo, nel secondo veniva totalmente catturato dal mondo della fotografa francese.

Invece alla Fabbrica del Vapore si rimane fuori dall’universo artistico di Magritte. La visione completa dell’opera dell’artista tanto decantata si riduce alla proiezione delle opere sui maxi schermi, anche se il senso sembra sfuggire. Quello che rimane è il ricordo di immagini fluttuanti, ma questo percorso espositivo multimediale sembra rimanere quasi grezzo, come se potesse essere sviluppato meglio.

Forse semplicemente le mostre experience hanno fatto il loro tempo e non è più sufficiente cercare di far leva sulle emozioni di chi guarda bombardandolo di immagini. D’altro canto pare che Inside Magritte abbia ottenuto un buon successo di pubblico. Cosa ha attirato i visitatori? Probabilmente la grandezza di René richiama l’attenzione di suo e d’altra parte le esposizioni immersive suscitano sempre interesse. Pensiamo anche che Magritte è talmente entrato nell’immaginario collettivo che esiste un bar a Milano, di cui non facciamo il nome, che ha nell’insegna la scritta: “Questo non è un bar”. Ma questa è un’altra storia. E probabilmente a Magritte interesserebbe.

Eleonora Manzo